Enrico Costa
Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi / Cuec, 2007
La bella di Cabras
Enrico Costa
p. 99
L'oristanese prende moglie nel suo paese, nella propria via, nella propria casa, nella propria famiglia. Se fosse possibile sposerebbe sé stesso, come la lumaca! [...] Onde fu detto, per esempio, che Bosa fornisce carciofi ed avvocati a tutta la Sardegna.
pp. 100-101
Gli oristanesi sono il popolo più religioso e bigotto dell'isola; e Lamarmora nel 1858 notò che nessun'altra città della Sardegna, del Piemonte, della Liguria e della Savoia era provveduta di chiese e di preti come Oristano, in rapporto alla sua popolazione. “I forestieri – scrisse egli – non vedono per le vie che preti, seminaristi, monaci e sacrestane colle zimarre rosse”. Lo Spano – ch'era un canonico – scrisse in proposito che i preti ad Oristano diminuivano, perché la mancanza delle pingui prebende allontanava i giovani dal sacerdozio. “Non vi era allora altra risorsa – egli aggiunse – o prete, o frate: se n'era fatto un mestiere!”. L'Angius – ch'era un frate – nel 1845 contò ad Oristano 68 preti, 171 frati e 25 monache: in totale 264 religiosi. Via, non c'era poi tanto male! Quattro religiosi e mezzo per ogni cento abitanti! Il Valery – ch'era prete – nota che il clero diede ad Oristano impulso alla civiltà, perché fin dal principio del secolo XVII i preti scominicavano gli incendiari degli ulivi, esempio che, per eccitamento degli Stamenti, fu più tardi limitato da tutti i vescovi dell'isola. Il Maltzan (a proposito di Vescovi) osserva che l'Arcivescovado di Oristano è quello che, in tutta l'isola, ha fatto la più grande caduta, essendo un tempo il più ricco degli Stati sardi. Godeva – dice egli – un reddito annuo di 150 mila scudi, mentre oggi, come gli altri, è ridotto alla miseria di seimila lire! L'Angius ci fa notare che gli oristanesi sono sinceramente religiosi e che segnano a dito, esecrandoli, tutti coloro che si mostrano poco cristiani. Però – scriveva egli nel 1845 – non sono pochi i superstiziosi che credono nelle malie, che pagano bene le cartelle ed i sacchetti che contengono pretese virtù contro gli iettatori, le streghe, i fattucchieri, e persino contro le palle ed i pugnali. Biasima inoltre la credenza nelle così dette animas decolladas, cioè a dire degli impiccati, pei quali si fecero un tempo pratiche nefande, novene di mezzanotte sotto i patiboli, con riti stranissimi e con più strane orazioni. Inutile dire che oggi non vi ha neppur l'ombra di simili superstizioni, degne del medioevo.
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ldquo;I forestieri – scrisse egli – non vedono per le vie che preti, seminaristi, monaci e sacrestane colle zimarre rosse&rdquo
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Questa tinta si deve forse all'arrivo a Oristano dei Cristiani di Tiro verso il 1292, dopoché abbandonarono la Siria, perché saccheggiata e posseduta dai Musulmani d'Egitto?
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Le più agiate hanno i pepli di seta di fondo paglierino con istampe di mascherine, di farfalle, di fiori, e i lembi scaccheggiati, addogati, screziati di bei capricci. Le altre li portano di mussolina celeste, o d'arancione, o d'amaranto, con istampe attorno per ornamento che gli inquadra... Quel peplo delle agiate, descritto dal Bresciani, si vede oggidì assai raramente in Oristano; esso non è rappresentato da quel certo fazzoletto color caffè, di cui tenni parola a Cabras, nella festa di S. Maria, il più grande fazzoletto del mondo.