Giuseppe Dessì
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
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ldquo;Portavano lo stesso mantello che avevano indossato nei pascoli del Monte Linas o del Supramonte, col mazzocchio d’olivastro e la bisaccia logora. Lui si sentiva fraternamente legato a quegli uomini in uose d’orbace, guardati con disprezzo dai «signori». Quella notte, per ingannare l’attesa, ingollò una lunga sorsata di filuferru, indossò la giubba, cinse il cinturino con la corta sciabola, e uscì a passeggiare sul ponte&rdquo
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C’erano gruppi di nuoresi con i loro giubbetti rossi sotto la casacca.
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A notte alta riuscì a staccarsi e si rifugiò in cabina con la testa che gli girava; si spogliò al chiarore rossastro della lampada notturna e dormì alcune ore.
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Mai come durante quelle traversate notturne si sentiva solo, con un’accorata pietà per se stesso, per la sua gente, per la sua Isola, per il piccolo mondo ben noto, dal quale si allontanava ogni minuto di più. I suoi paesani, contadini e pastori, dormivano per terra nei corridoi o sul ponte. Lasciavano l’Isola attratti da chissà quale illusorio miraggio.
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La Sardegna era entrata nell’unità nazionale moralmente ed economicamente fiaccata. I Savoia, che ne erano venuti in possesso col Trattato di Londra, avevano continuato e se mai accentuato lo sfruttamento e il fiscalismo tanto che i sardi, per due volte, cercarono di liberarsene. La prima fu nel 1794 quando, a furor di popolo, costrinsero i piemontesi a lasciare l’Isola; la seconda nel 1796 quando Sassari proclamò la repubblica, soffocata poi nel sangue. […] La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la Penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’Isola si vide triplicate di colpo le tasse.