Giuseppe Desś
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Desś
p. 171
Aveva posato in fretta e furia la penna dalla cannuccia d’argento, come una scolare colta in fallo; ma il sindaco, dopo che anche Angelo ebbe firmato, asciugò accuratamente il pennino d’acciaio con uno straccetto, l’avvolse in un pezzo di carta velina, la rimise nell’astuccio di pelle foderato di seta bianca e glielo porse con un inchino pregandola di accettare quel «modesto omaggio» da parte dell’Amministrazione.
p. 172
La neve cadeva così in fretta che dal campanile si vedeva soltanto la sagoma grigia al di là della fitta cortina di fiocchi.
p. 173
laquo;Non si può cambiare mai il nome ai cavalli, né ai cani, perché muoiono: si chiama Zelinda e fra qualche mese ti farà un puledro, Dio volendo».
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Se ne stava lì immobile a guardare il profilo della moglie contro il muro bianco e ruvido, quel profilo infantile, le labbra socchiuse, la fronte dolcemente bombata, le lunghe ciglia ricurve, che a un tratto tremavano precedendo di poco il momento in cui Valentina usciva dal sonno.
p. 175
Si portava il suo rosario di madreperla e recitava come le altre donne qualche requiem e il de profundis, e, prima di andarsene, vincendo la ripugnanza e facendosi forza, toccava la fronte, le mani incrociate sul petto del morto, e sentiva dentro di sé quella immobilità, quel freddo di pietra, che non l’aiutavano a penetrare il mistero, ma lo rendeva ogni volta più oscuro e angoscioso.