Giuseppe Dessì
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
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Il significato del cambiamento del nome non era ben chiaro agli abitanti di Norbio, ma tutti, a dispetto della diffidenza innata per ogni cambiamento specie quando veniva proposto «dall’alto», erano contenti come quando si indossa un vestito nuovo.
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L’allegria si vedeva sulla faccia della gente, di tutta la gente: uomini, donne, vecchie e bambini, che con l’abito della festa aspettavano già da qualche ora addossati ai muri delle case, ai lati della via, in due file compatte – così compatte che, per vedere, i bambini si ficcavano a forza tra le gambe degli adulti, guardando verso Funtanedda, la parte bassa del paese da dove i cavalli sarebbero dovuti arrivare al galoppo.
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C’era gente anche alle finestre, ai balconi e persino sui tetti. Questi, impazienti, zittivano quelli della strada, come se l’intenso brusìo che saliva dalla folla fosse la causa del ritardo. Qualcuno si sporgeva dalla fila con la gamba tesa verso il centro della strada, per vedere meglio, ma subito molte mani lo costringevano a rientrarvi con rimbrotti e scossoni.
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laquo;Che vergogna!» sbottò la piccola Dolores afferrandosi le robuste trecce nere che le scendevano sul petto. «Meno male che non c’erano uomini» disse Annamaria con la guancia ancora rossa. «Uomini o non uomini,» canticchiò Sofia, che aveva ammirato le gambe bianche e affusolate «quella non ha paura di nessuno.
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Valentina si appiattì a terra, sfiorò l’ammattonato dal pavimento saltando a rana tra le gambe delle sorelle e, raggiunta la scala a piuoli dell’abbaino, ci si arrampicò svelta come una gatta con il binocolo nero che le ciondolava sulle reni, appeso al collo con la lunga correggia di pelle. […] Vide dall’alto i cortili, i muri, i tetti, gli alberi, tutto il paese nereggiante di folla.