Giuseppe Dessì
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
p. 111
Ci fu un silenzio durante il quale si fecero da parte per lasciar passare un gruppo di ragazze con le brocche umide in bilico sulla testa. […] «Se lei accettasse di farmi da testimone di nozze, diventeremmo compari d’anello e qui è come essere parenti, anzi anche di più».
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laquo;Compari d’anello!» bofonchiò. «Tu credi che conti più dell’amicizia?…» «No, non più dell’amicizia, ma almeno quanto l’amicizia.» «Sarò tuo compare d’anello» […] Al piano terreno la bettola era ancora affollata e ne usciva l’odore di anice dell’acquavite paesana insieme con il calore umano degli avventori e il loro vociare. […] Si avvicinò al banco e Giovanni gli versò un bicchierino di acquavite facendo traboccare il liquido sul bancone di zinco. Prese con l’indice e il pollice il bicchierino poco più grande di un ditale e lo vuotò d’un colpo, all’uso paesano, mentre tutti lo guardavano in silenzio quasi controllando i suoi gesti.
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Le stelle sembravano più grandi del solito nel cielo terso e trasparente, nel cui azzurro cupo si levavano i monti con il profilo ben noto, inconfondibile.
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Quella diversità di accenti e di caratteri gli faceva pensare alla guerra, anzi alle guerre alle quali aveva preso parte, come tanti altri «per fare l’Italia unita». Ma era soltanto ingrandito il regno del Re sabaudo. […] La vera faccia dell’Italia non era quella che aveva sognato con tanti altri giovani, ma quella che sentiva urlare nella bettola – divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stata altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei varii stati italiani.
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Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino.