Giuseppe Dessì
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
p. 74
Quella mattina, in piazza Frontera, si rese subito conto del malinteso che stava per nascere e, senza insistere sui volontari disse, sempre servendosi di Angelo che traduceva nel dialetto di Norbio, che, per il momento, non gli importava niente del carbone e della legna, e ascoltò egli stesso, con meraviglia, le proprie parole rimbombare nella piazza.
p. 74
Così l’ingegnere correva il rischio di passare per un sobillatore e un giacobino quando cercava di salvare quel poco che restava delle foreste di Parte d’Ispi e, dalla popolazione, veniva considerato un aguzzino dell’esoso governo.
pp. 74-75
Sulle due rive opposte, da piazza Frontera, asciutta per la sua posizione elevata e da piazza Cadoni, ancora invasa dall’acqua, la folla guardava attonita lo strano spettacolo offerto da quel forestiero avvezzo a comandare e a farsi obbedire, che lavorava come un manovale con l’acqua fino al petto lisciandosi ogni tanto la barba e i capelli con le mani bagnate e sporche di fango.
pp. 75-76
C’era qualcosa di inconsueto e al tempo stesso di famigliare in quell’adolescente che trasformava il suo linguaggio fatto di termini tecnici in quello strano dialetto latineggiante, facendosi capire da tutti. Perché era evidente che tutti capivano subito le sue parole e stavano a sentirlo; gli davano retta. Un tipo così lo aveva incontrato a Bezzecca. Era un pisano, arruolatosi quindici giorni prima.
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Ferraris, rosso in faccia, urlava i suoi ordini, ma si faceva capire più con i gesti che con le parole.