Lingua
Roma, Mondadori, 1945
Il diavolo fra i pastori
Francesco Fancello "Brundu"
p. 71
Ma a un certo punto zio Lampugnano – un vecchio Corso – gridò con la sua inimitabile mischianza lessicale: “o lu babbu mannu, legati li pantaloni si lu vuoi chiappari”.
Roma, Maglione e Strini, 1923
La razza. Frammento di recentissima storia
Romolo Riccardo Lecis
pp. 36-37
Nel silenzio ella accendeva il lume e riapriva innanzi a un’immagine sacra e a quella tremula fiammella il libro delle preci. Si udiva a volta a volta il flevole bisbiglio di quella voce pia. […] Ed era, poi, la stanzuccia da studio che appariva ad Ersini nelle scene della vita familiare, con le numerose immagini che la devozione materna aveva anche là posto a protezione augusta. Una piccola statua di madonna lo guardava dall’alto. Sul piedistallo erano incise le parole della fede luminosa "Sub umbra alarum tuarum".
p. 171
Possiamo senz’altro dire ch’egli si proponeva di rivedere, ripreso che avesse vigore, tutti i punti strategici o non, pittoreschi e felici di Barbagia: sarebbe ripassato per le foreste e i boschi e is tancas dei cui mille diversi aspetti serbava un ricordo chiaro ad onta della lunga assenza.
Quella severa Barbagia superba di sue orride bellezze soggiogava il cuore dell’artista e il cuore del figlio: l’uno assetato di bellezza, di natura ed arte, l’altro assetato e traboccante d’amore.
pp. 173-176
Epperò, ecco Barbagia e Ogliastra, le regioni sorelle e finitime unite dagli stessi caratteri biologici di razza, attraverso la parola di un illustre prelato che le dilige e le soccorre d’amore, instancabilmente: "Ricca, varia. Bella tutta la plaga. In capo il Gennargentu; a destra, ai piedi, il Flumendosa; a manca, dal Monte Santo, sui confini di Dorgali, a porto Corallo, presso Muravera, il Mar Tirreno.
Ovunque l’orizzonte è come una festa di monti, di colli, di balze che si alternano di giogaia in giogaia come gigantesche onde incalzantesi al mare: quasi ciascuna catena sta a sè, ed ogni monte o colle sorge da sè, dai piedi nella pianura, e con le pendici, con le vette soleggiate ed ombreggiate dalla propria luce.
Appaiono le rocce brulle, sassose, capricciose, irte, facili, tagliate a picco; e colline incantevoli, verdeggianti, simmetriche, come innalzate a belvedere sulle cerulee onde del mare".
Ai piedi del Gennargentu, propriamente della montagna Perdaliana, che all’altezza di circa 1300 metri termina acuminata in forma precisa di gigantesco castello, con mura e torri e spalti e merli, figurano belli e caratteristici i così detti corongius i quali movendosi dal Nord al Sud Est, verso la stazione di Gairo prima, per Ulassai, Jerzu, poi; di qua fino a Monte Ferru. Di là sino a Taccu Mannu ed a Tacchixeddu di Tertenia, vanno come una sola catena compatta di ciclopiche muraglie dolomitiche – ove crollanti ed ove superbe nella loro interezza – coronate di roveri, di cespugli, dalle più fantastiche forme di stalattiti sotto la volta del cielo!
E la vegetazione è ricca. Varia, poderosa ovunque! […]
Quale incanto nell’altopiano di Sadali, profumato di timo, serpillo, ramerino, issopo, maggiorana!.... Come più aprico l’altro che dalle pendici di S. Vittoria va fino alla solitaria Escalaplano, ed indi – solcato dal Flumineddu, limitato al Sud dal Monte Cardiga, ad est dalla contrada di Quirra – volge più alto, più ricco verso Perdas de fogu e poi fino al Corongiu di Jerzu!
pp. 186-187
Non vestiva la casacca, la mastruca pelosa che quasi tutti i pastori portano sulla montagna al caldo e al gelo per rigorosa osservanza di quel costume a cui, già prima di muover passo, ogni nuovo nato pare faccia tacitamente giuramento. Egli dunque doveva essersi tolta la mastruca nel riposo e averla deposta da un lato con la bisaccia, col sacco e con la verga. […]
I calzoni bianchi, ad ampi sbuffi, che gli ricadevano in mille pieghe sull’esile ginocchio, spiccavano in contrasto superbo di contro al nero lucido del copripetto di velluto trapuntato di seta da ignota fine mano paziente. Gli brillavano sul largo petto di giovanile atleta, percossi dai raggi del sole erompenti di tra il fitto dell’alte querce, i bottoni d’argento disposti in lunga fila al lato manco. E le gambe strette e affusolate in is carzas de tresidenti avevano non so che di eleganza signorile e civettuola nel loro garbo e nella loro forma così schietta, ad un tempo non so che di sveltezza presta, vivace e impaziente, e, infine, nascosta, quella forza miracolosa che alla corsa, alla lotta e alla fatica fa duri come acciaio i muscoli delle gambe stesse e dei garretti.