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Italia ed Europa

Roma, Tip. G. Ciotola

L'eremita di Ripaglia ossia l'antipapa Amedeo VIII di Savoia

Stefano Sampol Gandolfo

p. 222
Fra le varie repubbliche italiane, che s’inalzarono nell’evo medio al più alto grado di potenza e di gloria, devesi senza dubbio annoverare quella di Pisa; che forte in terra, era a que’ giorni insieme a Genova, a Venezia e ad Amalfi, una delle più forti e gloriose regine anche del mare.
Solcavano infatti le sue numerose galere per ogni parte il mare; mantenevano il commercio con tutti i paesi del mondo, e facevano risuonare alto e rispettato il nome dell’antica Alfea.

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pp. 223-224
Sul principiare del secolo duodecimo un avido stuolo di corsari saraceni aveva piantato il suo nido nelle isole Baleari; e di là, come è noto, colle sue agili ed ardite navi, infestava il Mediterraneo, assaltando e predando le navi che vi veleggiavano, e saccheggiando tutti i paesi della costa d’Italia e della Francia.
[…] Il santo pontefice Pasquale II, commosso dalle sciagure di tanti infelici, infiammò i popoli cristiani a combattere contro quelle orde spietate di manigoldi; rivolgendosi più specialmente ai Pisani, siccome quelli che sapeva più degli altri forti di navi. […] E i desideri del Papa furono secondati.
Le repubbliche toscane, i signori feudali delle coste di Provenza, di Linguadoca e di Catalogna, insieme ad altri delle coste italiane risposero all’appello della Repubblica Pisana, e chi non poteva soccorrerla di navi, la soccorse di cavalieri, di fanti e di danaro.
Spuntava il giorno 6 agosto del 1114, quando la flotta pisana, comandata dallo stesso Arcivescovo Pietro Moriconi in paludamenti prelatizii salpava dal porto di Pisa alla volta delle Isole Baleari. Erano da 300 navi, sulle quali stavano imbarcati 900 cavalli, 40 mila fanti, e il fiore di tutta la gioventù Pisana.
La fortuna non si volse però immediatamente propizia agli animosi Pisani. Ché prima il vento contrario li costrinse a riparare nel porto di Vado, e poi ebbero la infausta notizia che i Lucchesi loro antichi e fierissimi nemici, si disponevano a profittare appunto di quella circostanza, per cui Pisa era rimasta sguernita affatto di difensori, per muoverle guerra e per tentarne l’assalto.
E già in quel terribile frangente le navi pisane stavano per ripiegare la prora, onde volare in soccorso della patria in pericolo, quando ad un ardito giovane nocchiero della mesta spedizione balenò alla mente un saggissimo pensiero. La saggia idea di mandar subito ambasciatori a Firenze, stata sino allora amica di Pisa, onde essa volesse assumersi il nobile e generoso incarico di proteggere e di difendere all’uopo la città sorella da qualunque vigliacco attentato de’ suoi nemici durante la santa guerra delle Baleari.
[…] I Fiorentini, non solamente accettarono favorevolmente la nobile missione, ma spedirono immediatamente buon nerbo di milizie a piedi ed a cavallo a guardare la minacciata città sorella. Anzi, siccome a que’ tempi, che molti chiamano barbari, si usava tra gli amici, ed anche tra i nemici, di una lealtà, che in questi tempi nostri detti civili raramente si trova, i Fiorentini, a togliere ogni sospetto di ambiziose mire sopra Pisa, pretesero si convenisse che il loro esercito sarebbesi accampato a due miglia lontano dalla città, e che nessuno avrebbe osato di entrare in essa sotto pena della testa.
Assicurati così schiettamente da qualunque timore, proseguirono i Pisani nella loro impresa, sempre però contrariati dai venti tanto ostinatamente che furono costretti a passare l’intera stagione invernale nel porto di Barcellona.
Ma venne finalmente la primavera; […] le navi, issata la bandiera della Madonna, corsero ad Ivica, una delle cinque isole Baleari, che era difesa da una fortissima rocca. Vi giunsero di notte e di nottetempo l’assaltarono. I Saraceni, sebbene sgomentati, opposero una vivissima resistenza scagliando pietre e dardi infuocati di nuovo genere. Ma i Pisani non indietreggiarono, rinnovarono più gagliardo l’assalto e li costrinsero a capitolare.

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pp. 226-228
Ottenuto questo primo successo essi [i Pisani] si diressero all’isola di Maiorca, la principale dell’Arcipelago, e la meglio munita di fortezza e di difensori. Una fittissima selva, che occupava una gran parte dell’isola, offrì loro un sicuro luogo di sbarco. Onde incoraggiati dalla prima vittoria, piombarono con tale impeto sui nemici, che li costrinsero a ritirarsi dentro la città. Era questa vastissima, fabbricata in una pianura e difesa da un triplice giro di robuste mura, per cui molto difficile rendevasi il poterla vincere ed il poterla prendere.
Ne tentarono ciò non ostante l’assalto, ma inutilmente; sicché dovettero desistere dall’impresa tanto più che l’inverno del 1115 era già molto avanzato coi suoi straordinari rigori. E come se ciò non bastasse, una orribile pestilenza cominciava a mietere gran numero di vite fra i valorosi guerrieri, e cominciavano a scarseggiare anche le vettovaglie.
Lo scoraggiamento si era impadronito di loro; già stavano per abbandonare i frutti, che con tante fatiche, con tante privazioni e con tanto sangue avevano raccolti, quando di comune accordo vollero tentare ancora un supremo sforzo. […] Si slanciarono con tale ardire contro le mura, che il primo, il secondo, il terzo cerchio di esse come assalivano, conquistavano.
I Saraceni si difesero disperatamente e quando videro superate le mura, che reputavano imprendibili, fuggirono dentro la città e si rinchiusero nelle sue torri di legno, ma anche queste furono assalite, arse e distrutte, onde ben presto la città intiera cadde in potere dei vittoriosi loro nemici.
Immensa fu la strage di Saraceni, immensi furono i frutti della vittoria; tra i quali principalissimo quello della libertà subito data a più di tremila cristiani, che coperti di catene, laceri ed affamati, languivano da gran tempo nelle più orride prigioni, aspettando la dura sorte di essere trasportati e venduti schiavi in Oriente.
Ultima restava l’isola di Minorca, ma conquistata anche questa, e proclamata quindi compiuta la gloriosa impresa, fecero finalmente i Pisani ritorno nel 1117 alla patria loro, carichi di tutti i tesori e di tutti i preziosi bottini, che quei feroci pirati avevano in tanti anni di rapine e di devastazioni accumulati col ferro, col fuoco e col terrore.

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p. 228
Di un brutto fatto però si macchiarono in questa circostanza i Pisani, che non possiamo passare sotto silenzio. Del brutto fatto, per cui si suol dire proverbialmente ancor oggi: Fiorentini ciechi e Pisani traditori. Narriamolo.
Ai Fiorentini, che con tanta lealtà e tanto disinteresse avevano guardato la patria loro, vollero i Pisani, reduci dalla conquista, lasciare in segno di gratitudine la facoltà di scegliere tra due magnifiche porte di bronzo e due stupende colonne di porfido, portate via dalla vinta e saccheggiata isola di Maiorca. I Fiorentini, nel gradire il cortese ricordo, preferirono le due colonne. Ma che cosa avvenne? Avvenne che siccome le due colonne erano coperte di un superbissimo scarlatto nessuno avendo potuto internamente vederle ed esaminarle, i Fiorentini rimasero ingannati. Perocché esse erano state enormemente danneggiate dal fuoco.
Chi avesse la vaghezza di ammirare quelle due colonne di porfido vada a Firenze e le troverà ancora nel Battistero, in quel gioiello di tutte le architettoniche beltà, che è il tempio di S. Giovanni.

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pp. 232-233
Il viaggiatore, che da Donnas, ultimo confine naturale della Valle d’Aosta, e quindi anche politico e amministrativo una volta di quel Ducato, recasi a Bard, incontra a sinistra la via tagliata a perpendicolo nei dirupi; sicché i precipizii, tra i quali la Doria, trascorre, presentano al suo sguardo una delle più spaventevoli profondità.
Il borgo di Bard comparisce allora nella più stretta gola di due scoscese montagne.
Una rupe d’immensa mole chiude da un lato la valle, e respingerebbe la impetuosa corrente dello stesso fiume, se questo non si aprisse un ampio varco dalla parte di mezzodì.
I fabbricati di Bard compongono una lunga borgata, che interseca la via provinciale. A Bard è contiguo un sobborgo, denominato Iaquemet, e alla distanza di un miglio trovasi il villaggio detto di Albard. Tutto il resto è un alternarsi di dirupi e di precipizi, e l’anima di chi si fa a contemplarli ne resterebbe lungamente atterrita, se non fosse una cappella rurale, che in mezzo ad essi sorge a conforto sempre di chi le si avvicina e in lei riposasi; per quindi proseguire animoso e rinfrancato la sua peregrinazione e giungere alla sua rinomatissima rocca, detta appunto il Forte di Bard.

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