Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Desś
p. 335
Lo zio Oreste, nell’atto di salutarlo, lo scuoteva energicamente, ridendo, lui così esile, così malato, quasi per farsi perdonare di non andare a combattere chi sa poi perché e per chi, e vinceva la commozione dicendo con voce sonora che la guerra sarebbe finita a primavera.
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Ogni casa, simile a un guscio annerito, prende luce da piccole finestre e dalla porta aperta direttamente sul cortile.
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Ognuno sceglieva il suo santo, nelle preghiere, secondo la propria inclinazione, come intercessione per arrivare a Dio, che era oltre la cortina di nubi di Monte Homo, oltre i più segreti pensieri.
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I contatti della famiglia con la chiesa erano regolari e continui, ma non erano, per quanto Marco riusciva a capire, rapporti diretti con Dio. Dio era lontano, su un altissimo trono invisibile. I Santi, a cui sua madre, su nonna, le zie si rivolgevano con venerazione, ma anche con una certa confidenza e famigliarità, erano persone simili a loro. Le chiese di Norbio erano piene di simulacri, uno per ogni cappella, e a volte anche di più, in occasione di certe feste, così come il salotto della nonna Margherita era pieno di ritratti. E stavano nell’ombra delle chiese, misteriosi nella loro santità, ma vestiti in modo simile alla gente di Norbio: avevano occhi, mani, piedi, barbe come quelli della gente che s’inginocchiava o si segnava passando. Ognuno sceglieva il suo santo, nelle preghiere, secondo la propria inclinazione, come intercessione per arrivare a Dio, che era oltre la cortina di nubi di Monte Homo, oltre i più segreti pensieri
p. 337
Tutta la gente, la gente di Norbio, soffriva; ma c’era nel dolore una gradazione e quindi, secondo Marco, un’ingiustizia.