Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
p. 226
A quei tempi, la selvaggina era tanta che, in qualsiasi strada di campagna, bastava scendere da cavallo e inoltrarsi di pochi passi nella brughiera per levare stormi di pernici, o attraversare un canneto per sparare a una beccaccia.
p. 226
A quarantacinque anni suonati, era ancora un bell’uomo: alto e magro, la corta barba nera, i folti capelli brizzolati su le tempie e spartiti a sinistra. […] Di solito indossava una giacca di panno nero piuttosto lunga, calzoni chiari, una camicia bianchissima dal collo floscio e una cravatta a fiocco.
p. 226
La povera gente gli voleva bene e non si trattava di un sentimento astratto, generico, ma individuale, concreto: gli volevano bene uno per uno, e lui voleva bene a ciascuno di loro.
p. 227
A nessuno sarebbe passato per la testa di chiamarlo signor Conte; eppure questo era il titolo che gli competeva di diritto, anche se suo padre Don Tommaso e, prima di lui, l’avvocato Fulgheri, lo avevano lasciato cadere in disuso per spregio verso la monarchia e il malgoverno.
pp. 227-228
ldquo;Donna Luisa Loru, nata Boy, teneva molto ai titoli gentilizi, proprio perché lei, che veniva da una famiglia di altezzosi nobilucci, aveva sposato un plebeo paesano che si era fatto da sé, e che, per mantenersi agli studi era stato persino maiolu, cioè servetto, in casa di un nobile cagliaritano, secondo l’antica tradizione spagnuola&rdquo