Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941
Marianna Sirca
Grazia Deledda
p. 818
I battenti della finestra inzuppati d'umido erano aperti e dalle sbarre arrugginite dell'inferriata cadevano ancora grosse gocce d'acqua dense rossiccie come sangue. L'aria già primaverile penetrava nella casa, e sopra i tetti, dai quali erano scomparse le ultime stalattiti, s'affacciavano piccole nubi chiare su un cielo azzurro che pareva soffuso di meraviglia infantile. Sì, il sole esisteva ancora; e il mormorio lontano del torrente, nel silenzio del quieto mattino, diceva le cose dolci lontane, di erba, di querce bagnate che si scuotono come naufraghi venuti fuori dalla tempesta, dei primi agnellini nella tanca che suggono il latte materno guardando in alto con voluttà, dei cani allegri che abbaiano vedendo a sera scintillare un fuoco in lontananza nel crepuscolo azzurro ed è la luna di febbraio che cala fra i mandorli già fioriti della valle di Oliena.
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laquo; Forse oggi verrà,» e d'un tratto il giorno tetro le si apriva davanti come una conchiglia scabra con dentro la perla della speranza. Ma le ore passavano invano e al cadere della notte anche su di lei il dolore come l'inverno sulla terra rigettava il suo cappuccio nero.
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Gli occhi verdognoli, di tanto in tanto, pure nel sorriso, si oscuravano come se dentro vi passassero ruotando delle ombre.
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Il cugino la guardava e sorrideva mostrando i bei denti nel viso pallido; era più magro e gialliccio del solito e appunto con quei denti sani nel viso devastato pareva uscito appena da una malattia.
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Si ricacciò la berretta in testa e s'avviò per andarsene: Marianna gli balzò davanti, lo afferrò per le maniche del cappotto col viso riverso sbiancato come s'egli l'avesse ferita al cuore.