Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941
Elias Portolu
Grazia Deledda
p. 67
Il sole era tramontato, e i boschi e le lontananze tacevano sotto il cielo tutto roseo, d'un roseo denso quasi violaceo; tutta la tanca, le macchie lucenti, l'erba immobile, le roccie e l'acqua riflettevano quella calda luminosità di rosa peonia: era una pace quasi religiosa, come di chiesa illuminata dai ceri accesi.
p. 69
Intorno era lo stesso silenzio, puro, infinito; il tramonto accendeva le estreme cime del bosco, una gazza cantava in lontananza; ma Elias era triste, sfatto, col volto soffuso di stanchezza e di sofferenza come nei primi giorni del suo ritorno.
p. 69
- Una cosa è il sogno, un'altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione, ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene.
p. 70
Egrave; inutile, non posso, non posso parlare, né con mia madre, né con nessuno. Ieri sera mi sentivo deciso, mi sembrava di aver un cuor di leone, o per meglio dire una faccia tosta di cuoio.
p. 70
Chiamo mia madre in disparte, e sento salirmi alle labbra le parole che già avevo preparate. Essa mi guarda, ed ecco, improvvisamente, sento battermi forte il cuore, e un nodo mi chiude la gola. Ah, no, zio Martinu mio, è impossibile, io non posso parlare, anche volendolo. Potrei commettere un delitto, ma rivelare quella cosa ai miei parenti, no. Non è possibile.