Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1945
Cenere
Grazia Deledda
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Visioni apocalittiche sorgevano, s'incalzavano, si mescolavano, sparivano, come nuvole mostruose, intorno a lui. Fra le altre cose egli vedeva il nuraghe col gigante ed il San Giorgio del sogno febbrile di zia Varvara; ma la luna si staccava dalla figura del Santo e volava sul cielo; altre due lune, rosse e immense, la seguivano.
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Tutto sparve; la vecchia che piangeva il suo esilio dalla patria diletta, la strada melanconica, la piazza in quell'ora deserta e ardente, il Pantheon triste come una tomba ciclopica; e Anania, col viso accarezzato dal vento di ponente, provò un senso di sollievo, come svegliandosi da un incubo.
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Pochi momenti prima della partenza zia Varvara gli consegnò un piccolo cero, perché lo offrisse per lei alla Basilica dei Martiri, a Fonni, e Maria gli diede una medaglia benedetta dal pontefice.
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laquo;Mi riposerò», pensava, preparando rapidamente la valigia e ricordando i lunghi preparativi della sua prima partenza da Nuoro. «Ah, quanto vorrò dormire queste vacanze! Non voglio diventare nevrastenico. Salirò sulle montagne natìe, sul Gennargentu vergine selvaggio. Da quanto tempo sogno quest'ascensione! Visiterò la vedova del bandito, il fraticello Zuanne, il figlio del fabbricante di ceri. E il cortile del convento?... E quel carabiniere che cantava A te questo rosario?»
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Prima di scendere a cena, egli s'affacciò al finestruolo della sua cameretta e rimase colpito dal silenzio profondo che regnava nel cortile, nel vicinato, nel paese. Gli parve d'essere diventato sordo. Ma la voce di zia Tatàna risuonò nel cortile, sotto il sambuco.