Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1945
Cenere
Grazia Deledda
p. 61
Spesso veniva invitato a pranzo dal signor Carboni, ma, strano invito, egli doveva mangiare in cucina, con le serve ed i gatti; del che non si lamentava perché gli pareva che a tavola, coi signori, non avrebbe potuto aprir bocca per la soggezione e per la gioia.
p. 62
In primavera il sambuco fioriva nel cortiletto, le mosche e le api ronzavano nell'aria luminosa; nelle strade e nelle case si delineavano sempre le stesse figure; zio Barchitta il pazzo, con gli occhi azzurri fissi e la barba ed i capelli lunghi, simile ad un vecchio Gesù mendicante, continuava nelle sue innocue stravaganze [...] i bambini laceri giocavano coi cani, i gatti, le galline, i porcetti, le donnicciole si bisticciavano, i giovanotti cantavano cori melanconici nelle notti serene illuminate dalla luna, il lamento di Rebecca vibrava nell'aria simile al canto del cuculo nella tristezza d'un paesaggio desolato.
p. 63
- Che dite voi, vecchia cavalletta! - esclamò il mugnaio, adirandosi. - Come il diavolo, voi, più invecchiate, più diventate maligno.
p. 63
Il mugnaio raschiò e tossì a sua volta, e avrebbe voluto che Anania non udisse le parole sacrileghe dell'ortolano, ma anche lui non poté contenersi, e cominciò ad inveire contro zio Pera. Schifoso, maligno, topo morto, che modo di parlare è il vostro?
p. 63
- Andiamo! - riprese il vecchio raschiando e tossendo. - E le cose forse non si sanno? Ebbene, solo i cani riescono a nascondere le loro immondezze. Perché il padrone non fa studiare i suoi bastardi? Anania, che guardava alla finestra, sotto la quale odorava un mucchio di sanse fumanti, sentì un fremito di dolore, come se qualcuno l'avesse percosso.