Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1945
Cenere
Grazia Deledda
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l signor Carboni, grosso, rosso in viso, con gli occhi azzurri e i capelli rossicci, col gilè di terziopelo attraversato da una enorme catena d'oro, veniva salutato, riverito, ricercato dai personaggi più cospicui, dai paesani e dalle paesane, dalle signore e dai bimbi che gremivano la chiesa.
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Furon serviti liquori, caffè, biscotti e amaretti; e la bella signora Carboni, che aveva due profonde fossette sulle guancie e i capelli neri tirati tirati sulle tempie, graziosamente adorna d'un vestito da camera, d'indiana a quadretti azzurri e rossi, con volante e merletto in fondo, fu amabile con tutti e baciò i bimbi consegnando a ciascuno di loro un involtino.
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Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli.
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- Ebbene, vuoi studiare? - chiese astutamente il mugnaio.
- Sì.
- Ah, bravo! - disse il signor Carboni, - tu vuoi studiare? ti farai prete?
- Ancora no.
- Avvocato? - chiese il mugnaio.
- Sì.
- Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!
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Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti.