Grazia Deledda
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1945
Cenere
Grazia Deledda
p. 86
Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l'aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d'orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla.
p. 86
Il sonetto che egli voleva mandare a Margherita era già copiato a stampatello, su un foglio di carta rosea rigata traversalmente di viola [...] Rileggendo i versi il poeta provò una tristezza dispettosa; vedeva, al posto della simbolica fanciulla, un capitano dei carabinieri dai baffi provocanti; ripiegò il foglio, ma restò a lungo indeciso se doveva chiuderlo o no nella busta.
p. 87
Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d'un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l'umido fogliame d'un castagno, in una lontana mattina d'autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell'orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino.
p. 87
- Ecco il caffè, ma che cosa hai, cuoricino amato? Sei pallido; rimettiti, riprendi colore prima di recarti dal padrino. Come? Scuoti il capo? Non andrai stamattina dal padrino? Cosa guardi? C'è qualche formica nel caffè?
p. 87
Ma dove sei stato, galanu meu? Perche sei uscito prima dell'alba? - chiese zia Tatàna.
- Datemi il caffè! - diss'egli, aspro.