Grazia Deledda
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1945
Cenere
Grazia Deledda
p. 57
In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava?
p. 57
Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole.
Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente.
p. 58
La mattina era splendida; nell'aria limpida passava un dolce odore di mosto, di caffè, di vinaccia in fermentazione; le galline ed i galli cantavano per le strade; i contadini si recavano in campagna coi lunghi carri coperti di pampini, preceduti dai cani allegri e frementi.
p. 58
Anania grande, che divorava già la sua colazione, - un arrosto di viscere di pecora, - quando vide il fanciullo pronto per recarsi alla scuola rise di gioia, e gli disse, minacciandolo con un dito: - Ohi, ohi, se non fai da bravo! Ti mando da Maestro Pane a far le casse da morto...
p. 58
E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota.