Grazia Deledda
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941
Elias Portolu
Grazia Deledda
p. 121
Ma egli non se ne accorgeva; i suoi occhi verdognoli si smarrivano in lontane visioni.
pp. 124-125
- Signore, tu lo vedi, io sono debole e vile; abbi pietà di me, mio Dio, perdonami, dammi requie, strappami il cuore dal petto. Io sono uomo, non mi posso vincere; perché tu mi hai fatto così debole, o Signore? Ho sempre sofferto nella mia vita, e quando ho dovuto, vinto dalla mia debole natura, cercar la felicità, ho peccato, ho calpestato i tuoi precetti, sono stato più pagano e malvagio dei Gentili; ma ho tanto sofferto. Dio mio; e soffro ancora tanto che la misura è colma. Dio mio, Dio mio, Dio mio!, - proseguiva singhiozzando, col viso stravolto inondato di lagrime salate, - abbi misericordia di me, perdonami, aiutami, dammi la pace del cuore... dammi un po' di bene... un po' di dolcezza: non ne ho diritto, Dio mio? Non sono una creatura umana? Se ho peccato, perdonami, se tu sei misericordioso: se tu sei grande, Signore, perdonami e dammi un po' di bene, un po' di gioia..
p. 125
Tre giorni prima aveva dovuto percorrere grandi distanze a piedi, per raggiungere un suo bue smarrito; l'ansia, la fatica, il calore, una predisposizione al male, lo avevano atterrato.
p. 125
Aveva i piedi gonfi e sanguinanti, le mani graffiate dai rovi e dalle pietre.
p. 125
laquo;mio padre dice che sono i vili a piangere; e che un Sardo, un Nuorese, non deve piangere; ma fa così bene! Altrimenti ci si schianta, in certe ore!»