Grazia Deledda
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941
Colombi e sparvieri
Grazia Deledda
p. 321
Né l'uno né l'altra pronunziarono il nome della straniera; ma ella era in mezzo a loro, ed egli la vedeva, bianca e ridente, con le vesti che pareva susurrassero esalando un profumo di fiori; e gli sembrava che ella spalancasse la porta della stamberga e fosse lei a far inargentare il cielo sopra l'altipiano, a far cessare il vento, nell'alba di maggio, a far cantare le cinzie fra i cespugli umidi del ciglione.
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Anche Columba credeva di vederla, bianca, con gli occhi scintillanti, come quella mattina su al balcone del Municipio: la sua voce le diceva: «Vattene, vattene; non ti vergogni a star qui, dopo che ti sei legata con quell'altro?»
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In quel momento s'udì nella straducola un passo di cavallo, e Columba balzò in piedi pensando al nonno.
- Non è lui, - disse Jorgj, che conosceva il passo del cavallo di zio Remundu. - Però, sì, è meglio che tu te ne vada. Addio e... buona fortuna...
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Ma quando fu nel cortile si scoprì guardandosi attorno timida e diffidente come una cerbiatta smarrita. Tutto le sembrava nuovo intorno a lei, e la luce chiara dell'alba le destava meraviglia.
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Egli prese quella mano piccola, dura e bruna, che un tempo gli era parsa la mano di Rachele e la strinse nella sua umida e ardente; ma pensava alla mano piccola molle e bianca di Mariana, e Columba indovinava questo pensiero!