Grazia Deledda
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941
Colombi e sparvieri
Grazia Deledda
p. 190
Un giorno io ritornavo dall'attingere acqua quando vidi mio padre e un contadino di Nuoro salire la scalinata della piazza.
p. 190
Sapevo che mio padre doveva al contadino il fitto di una tanca; preso quindi da curiosità corsi giù per il viottolo, deposi i recipienti dell'acqua e corsi via.
p. 190
Il vento soffiava ininterrotto come sulla vetta di un'alpe, gli alberi mormoravano e grandi nuvole argentee passavano sul cielo di un turchino intenso.
p. 190
Mio padre era quasi sempre assente e non voleva che lo seguissi all'ovile perché desiderava che io studiassi per diventar notaio o prete. Quando non andavo a scuola vagavo per le strade del villaggio o litigavo con la mia matrigna, la quale forse conservava per me l'odio di famiglia.
p. 191
- Sant'uomo,- diceva il contadino, - io ho bisogno di denari non di chiacchiere: non me ne andrò di qui, oggi, senza i denari, perché domani mi scade una cambiale e se chi mi deve non mi paga sarò costretto a vendere il mio cavallo. Il mio cavallo! Lo stesso che l'anno scorso mi ha fatto vincere il premio di dodici scudi e due palmi di broccato alle corse per le feste del Salvatore. E perché me li fate perdere quest'anno, questi dodici scudi, veri come i dodici apostoli? Solo il mio cavallo può vincer la corsa, che i vermi vi rodan le orecchie. [...] Ma il contadino insisteva, ripetendo la storia del suo cavallo fino a suggestionarmi. [...] Mi pareva di vedere nello stradone di Nuoro la corsa dei berberi. Cavalli neri e bianchi, puledri bai e cavalle pezzate correvano giù, fra la polvere dorata dal sole; correvano così rapidi che si distingueva appena il loro colore; e i fantini, tutti ragazzetti come me, piegati sul collo delle bestie, scalzi, a testa nuda, cavalcavano senza sella fermi e sicuri come piccoli centauri.