L'opera del Delogu è una summa complessa e composita oltre che plurilingue: si articola infatti in sette parti, le prime cinque comprendono epigrammi e distici in latino, sulla vita del Redentore, sulla Vergine, su diversi santi e sui misteri della fede; la sesta parte comprende degli inni o gosos in sardo e in castigliano in onore di santi e sante, secondo una tradizione compositiva e innografica anche di tradizione popolare assai diffusa e sentita in Sardegna e tutt'oggi perdurante; la settima parte è una sacra rappresentazione, la Tragedia in su Isclavamentu de su sacrusantu corpus de Nostru sennore Iesu Christu, in lingua sarda. Il tutto, dunque, è di argomento religioso.
La parte, l'opera del nostro autore maggiormente nota e considerata dalla critica e dagli studi è certamente quest'ultima, la Tragedia in su Isclavamentu, anche perché forse più compiuta e definita e comunque rappresentabile e quindi più fruibile. Ma non va dimenticata la produzione in latino che immette il Delogu Ibba nell'alveo della produzione del suo tempo che fruisce della dimensione e della temperie barocca ispanica ed europea, con una tonalità e un atteggiamento propri del concettismo, della sottigliezza del ragionamento che tanta parte e anche fortuna ebbero anche in Sardegna, specie se teniamo presente il Canzoniere ispano-sardo recentemente pubblicato da Antonina Paba sempre per la CUEC. La produzione latina del Nostro è dunque spesso trascurata o forse misconosciuta, sia per l'intrinseca difficoltà linguistica costituita dal latino, e spesso un latino non facile, sia perché non si hanno edizioni moderne di essa: ora resta finalmente fruibile, con testo, traduzione e annotazioni. La conoscenza di questa sezione del Delogu io credo potrà contribuire a gettare una luce più favorevole e giusta sull'opera del nostro autore, quando si veda la sua capacità intellettuale e d'invenzione e il suo riverberarsi sull'intera opera che ne resta illuminata.
Con questa pubblicazione viene così dunque fornito il testo completo e in edizione critica di un'opera importante nella e per la storia della letteratura e della lingua e più in genere della cultura sarda, un'opera tanto spesso considerata, dai critici del passato anche recente, canone di scrittura e di buon impiego della lingua entro una storia locale non sempre prodiga di prove d'arte, specie nei secoli passati, ma che viene sempre più riscoperta e riconsiderata. Sebbene proprio questi critici sono stati ingenerosi nei confronti del Delogu Ibba, in specie per quanto riguarda l'invenzione poetica e letteraria.
Questi nacque non si sa bene dove, forse a Sassari o più probabilmente a Ittiri, né quando, pare comunque nel settimo decennio del Seicento, morì certamente nel 1738 a Villanova Monteleone dove per circa un cinquantennio era stato parroco amato e stimato dalla popolazione, mentre nell'arco della sua vita aveva ricoperto altre cariche ecclesiastiche. La tragedia In su Isclavamentu fu pubblicata due anni prima della sua morte nel 1736: in un tempo cioè in cui tale genere tendeva a scomparire e in cui in Europa si andavano affermando altre forme la letteratura, anche drammaturgiche, forme che di lì a poco, pure in Sardegna, si sarebbero diffuse, sia pure in modi peculiari. Ma, sappiamo, la storia qui da noi talvolta - senza che ciò debba costituire un facile adagio, né tanto meno il punto di vista e la misura con cui considerare il nostro divenire - procede più lenta, o comunque con un ritmo e un passo suo proprio. D'altra parte l'influenza spagnola perdurò nell'Isola anche dopo il suo passaggio sotto l'influenza dello stato subalpino, e solo con una certa lentezza la cultura italiana si impose come modello primario; né va dimenticato che il 1736 era stato l'anno della pubblicazione, ma il lavoro poteva essere stato concepito anche qualche decennio prima, nello scorcio della dominazione e dell'influsso culturale in Sardegna. E il Delogu Ibba poi, non va dimenticato, nacque e si formò in un'epoca in cui la cultura iberica era predominante in Sardegna, e, alla sua morte, solo da poco l'Isola era passata sotto influenza piemontese.
La rappresentazione mette in scena l'agonia, la morte, la deposizione e la sepoltura di Cristo, con dovizia di personaggi e con alternanza di azione vera e propria e di declamazione (detto sia ciò nel miglio senso), di soliloqui sommessi - assai toccanti quelli della Vergine - e con sovrapposizioni di piani: quello tutto umano e quello celeste, secondo un impianto semiotico e testuale di ascendenza medievale, con una rispondenza fra le due sfere che utilizza la retorica dell'allegorico e del simbolico. Ma, chiaro e fermo restando tutto ciò, va evidenziato, in questo componimento, l'aspetto che più gli è proprio, ossia quello di essere una rappresentazione teatrale, mentre in genere ci si ferma alla valenza letteraria e/o linguistica. La rappresentazione mostra toni e colori barocchi, cui fanno aggio una concezione d'impianto e una tecnica scenica secentesche. Il testo della rappresentazione scopre infatti una coscienza teatrale e una sapienza della direzione, come già rilevava l'Alziator, una sapienza di regia che mette a frutto una poetica scenica ormai provata e consumata. Ciò è attestato dalle didascalie frequenti e minuziose che sono vere e proprie disposizioni di messa in scena riguardanti il disporsi su di essa e l'agire nel dramma dei diversi personaggi. Ma è soprattutto sulle luci, sul loro accendersi e sul loro attenuarsi, smorzarsi o oscurarsi che le didascalie appaiono più interessanti: esse infatti manifestano, nell'autore, una capacità e un'intenzione di realizzare una scenografia dall'ottica e dal cromatismo barocchi dove predomina il chiaroscuro, il gioco delle ombre, la piena luce abbagliante che si contrappone, ma dialetticamente e in unicità di struttura, all'oscurità, com'era proprio della poetica e dell'ingegno secentesco; il quale però entra qui in un gioco di contrappunto e di alternanze con l'idea e la visione medievali del mondo e dell'essere del/nel mondo.
Né va dimenticato l'impasto linguistico. Certo tradizionale anch'esso; certo carico e abbondante come un'onda di piena, non però privo della vena del sentimento colmo, e non quindi armato solo di retorica. La lingua di S'Isclavamentu si mostra matura e volta a compiuta poetica giacché fa interagire, sulla base sarda, apporti retorici e lessicali di provenienza ispanica e italiana: a testimonianza, ancor più, di lingua sarda che cerca una sua misura e una sua compiutezza poetiche in modelli esogeni. Fatto questo che, se oggi può apparire di sudditanza culturale, è invece di grande interesse - e non solo storico-letterario - se riportato e rapportato ai tempi di allora, che ricercava, e non certo in Sardegna soltanto, una esemplarità da verificare e proiettare sullo schermo di un'aulica e sperimentata finitezza.
Ma l'apporto, anzi la base sarda, non va certo trascurata perché costituisce l'intelaiatura essenziale sia sintattica che lessicale, la forma e il tessuto primario del discorso, che ne garantisce, fino ad oggi, una fruibilità più vasta e che affonda negli strati più vivi e più fecondi dell'anima nativa, con contributi popolari più che riconoscibili.
Dunque la lingua: questione annosa in Sardegna (e non solo a dire il vero) e per la cultura sarda. Si sa che l'impiego del sardo data da epoca assai lontana, all'XI secolo almeno, e probabilmente anche da prima; la scrittura è stata soprattutto di tipo giuridico documentario, ma già nel maturo secolo XIII una prova letteraria autonoma e indipendente si ha con il cosiddetto Libellus Judicum turritanorum: un'opera che ci mostra una lingua, il sardo, che quanto meno osa cimentarsi con la narrazione che non sia mera registrazione di dati e fatti, ma si organizza retoricamente a fine del dilettare, dell'insegnare e del convincere. Una lingua, il sardo di questa cronaca, che pur pagando il suo tributo all'italiano (quest'opera muove infatti e prende il suo impulso dalle scritture cronachistiche toscano pisane) con l'italiano sa cimentarsi alla pari, e non sembra avere complessi di inferiorità di fronte ad esso, e fa uso del lessico ma anche delle strutture sintattiche proprie della tradizione e dell'uso sardi.
Diversa fu invece la situazione storico culturale del XVI secolo, del secolo di cui si parlava prima e che vede appunto l'iniziare di un'attività letteraria in sardo, anzi l'inizio di un'attività letteraria tout court in Sardegna. Mutato è il quadro storico e culturale. Senza fare grandi disegni storici di alcun genere, basterà ricordare alcuni fatti essenziali: 1) la Sardegna di quest'epoca è ormai da tempo, e saldamente, nell'area politico culturale iberica, sotto una monarchia forte e organizzata; 2) ciò ha di fatto comportato un dato di tutta rilevanza per il nostro discorso, e cioè l'instaurarsi di una condizione linguistica di diglossia in cui la lingua sarda occupa il polo basso (il sardo di fatto restringe il campo d'impiego della sua espressione che viene marginalizzata), mentre il potere politico, religioso e culturale parla altro (spagnolo e catalano certo, ma anche italiano e latino); 3) siamo nell'età del classicismo e del costituirsi di modelli espressivi elevati, saldi e ben costrutti, frutto di selezione e di forte iato fra parlato e scritto, e rapportati a modelli altrettanto saldi; 4) tale inizio di un'attività letteraria è fortemente legato da un lato al costituirsi di strutture e di istituti di istruzione regolari e programmati (e che porteranno poi alla fondazione delle due università isolane), dall'altro al costituirsi di élites culturali e intellettuali, legate più all'Italia forse che non alla Spagna, in quella regione, o meglio città della Sardegna, Sassari, che, almeno culturalmente, guardava (e forse anche parlava) per non spenta tradizione, più all'Italia che non all'Iberia; élites che rivendicavano un ruolo proprio e in qualche modo autonomo pur entro il quadro della monarchia e dell'universo culturale spagnolo, senza alcun sintomo o fremito nazionale, ma che anzi vedevano nella località (termine che uso senza pregiudizio di alcun genere) la possibilità di una loro esistenza che difficilmente avrebbero ottenuto nel più vasto agone europeo.
Nasce da qui il tentativo per molti versi riuscito e i cui riflessi tuttora perdurano, della scuola sassarese e dell'Araolla. Ne nacque un codice linguistico letterario che alcuni direbbero e hanno detto artificiale: giudizio errato se lo si vuole riferire alla situazione e alla cronologia in cui esso fu creato e inventato, quando invece la temperie dell'epoca in qualche modo lo richiedeva e l'evocava, quando la distanza fra lingua letteraria e lingua comune doveva essere ampia e rimarcata, quando il latineggiare delle lingue letterarie europee e l'italiano in primo luogo veniva in sardo mutuato con l'italianeggiare o l'ispanizzare creando quell'effetto di straniamento, quel senso della differenza e della distanza fra codici necessario per dar tono letterario ai testi. Tale codice aulico si impose poi anche per le testualità meno strettamente letterarie, divenne il codice dell'oratoria sacra o civile e politica, il codice di ogni parlare elevato che esulasse dalla quotidianità.
E tale codice ebbe vita assai più lunga, più lunga di quanto non durasse l'occasione e la temperie che l'aveva generato. Ciò fu dovuto a diversi fattori, e primo fra tutti il permanere della diglossia per la quale il sardo continuava a restare e ad essere percepito come il polo basso, il registro della quotidianità pragmatica. Tale situazione è facilmente visibile quando volgiamo lo sguardo all'indietro, a un secolo prima e ci poniamo a guardare il poemetto agiografico del Cano il quale se anche non parte da una operazione autoriflessa e programmata, come la scrittura dell'Araolla, e se anche talvolta indulge a un tono e a una prospettiva di fruizione popolare, tuttavia è infarcito più che largamente di materiale linguistico estraneo al sardo: segno che fu proprio la diglossia a dare la spinta verso la creazione del codice linguistico di cui parliamo mentre l'operazione araolliana l'ha soltanto, per così dire, perfezionato e giustificato. Ma vi è un altro fattore di cui tener conto: sia il Cano sia l'Araolla sono uomini di chiesa, abituati all'azione pastorale, alla catechesi, all'esortazione e all'insegnamento morale e all'omelia, così come a lungo lo sarà la maggior parte degli intellettuali e dei letterati sardi, più o meno tutti sacerdoti o religiosi, come poi il Delogu Ibba; pertanto la distanza dei codici non poteva che rimanere invariata, nessuna concessione a nessun tipo o stimolo di realismo, il livello e il registro devono rimanere elevati e sublimi, devono recare la dignità che è connessa all'azione e all'argomento stessi in cui e di cui si parla.
Ecco dunque, il Delogu Ibba fa propria questa lezione araolliana e la declina ai suoi scopi e per un pubblico diverso, più popolare e meno colto rispetto a quello dell'Araolla: la lingua doveva essere meno preziosa rispetto a quella del suo predecessore, nel quale per altro, pur animato da fervente sentimento religioso, è attiva e robusta una forte componente soggettiva e autoriflessiva anche dal punto di vista linguistico; dimensione che manca invece al Nostro, e che viene supplita da un lirismo accorato d'ordine meditativo pio e devoto.
Nel giudicare quindi l'impasto linguistico dei letterati del Cinquecento e del Seicento, praticamente sempre uomini di chiesa, mentre pare proprio quasi mancare una cultura laica (non vanno però dimenticati i tentativi di romanzo in castigliano, il Zatrillas per esempio, quanto meno), che comincerà ad affermarsi solo nel maturo Settecento, non bisogna essere ingenerosi né sovrapporre le prospettive odierne sul passato. Italianizzare e ispanizzare, all'epoca, significò tentare, in certa misura riuscendovi, di creare uno strumento linguistico sardo che generasse una scrittura letteraria al di sopra delle esigenze più immediate e pragmatiche; d'altra parte questo impasto e questa prospettiva davano risultati di sicuro effetto, e doppiamente: in quanto da un lato ci sia atteneva a codici già fortemente elaborati e sperimentati, mentre d'altra parte si aggiungeva a ciò un effetto di straniamento, che era rilevante in un'epoca in cui le lingue per così dire maggiori erano abbastanza distanti dal sardo, che nell'uso comune, era proprio di tutte le classi sociali, anche delle persone di buona cultura, mentre, anche per esse queste lingue più blasonate erano comunque estranee se non straniere. Nel passato dunque l'effetto che si otteneva era quindi assai diverso da quello che può fare oggi una italianizzazione di ampie dimensioni, oggi che l'italiano è per lo più la lingua primaria della comunicazione in Sardegna, e per tutti quanti. Così se attualmente una italianizzazione linguistica e poetica può avere il sapore di un servilismo linguistico che ben radica l'idea, certamente fallace per lo più, di una sostanziale povertà e incapacità della lingua sarda, nel passato il massiccio apporto italiano, o spagnolo, aveva invece il sapore e il valore della ricerca di un codice che mettesse alla pari il sardo con le lingue più dotate, all'interno di un sistema linguistico e letterario sostanzialmente europeo o comunque largamente diffuso. In tal modo si innestava su una base strutturale e grammaticale sarda e su un lessico basilarmente altrettanto sardo, un apporto esogeno, straniero assai copioso e corposo. Tale andamento ebbe fortuna e in certa misura, pur con mutati atteggiamenti linguistici e stilistici, continua e perdura tutt'oggi; certo non si cercano più o, si cercano diversamente e con altri propositi, modelli aulici, tuttavia un adeguamento soprattutto lessicale all'italiano continua a permanere: sia per l'inerzia della tradizione letteraria passata, sia per il permanere sostanziale della diglossia, sia perché sembra più naturale in poetica e in un registro alto, pescare a piene mani da quella lingua che sembra più adatta a tale registro (e cioè l'italiano): e ciò perché l'italiano è ormai lingua assai diffusa e compresa, e praticamente l'unica impiegata per gli usi elevati. Con l'effetto sciagurato che spesso le parole più proprie del sardo che pur possono esprimere idee e concetti che non limitati alla sfera del concreto e del quotidiano, diventano di fatto o sconosciute e dimenticate ormai, oppure poco praticate, oppure, quel che veramente è peggio, tali parole sarde potenzialmente convenienti per un impiego elevato e meno ovvio vengono sentite come attinenti esclusivamente alla lingua della concretezza e del pragmatico, e destano il senso del ridicolo e dell'inadeguatezza per il semplice ed esclusivo fatto che sono sarde, e pertanto inadatte, mentre ne vengono lasciate in ombra le capacità intrinseche espressive, la valenza ulteriore, la ricchezza nascosta.
Quanto all'oggi, alla contemporaneità più attuale, assistiamo a una stagione felice e promettente. Una stagione anche contraddittoria, una stagione che vede di fatto nascere la prosa narrativa in sardo, che fa certo tesoro dell'esperienza letteraria italiana, ma che d'altra parte cerca un proprio modello autonomo di scrittura, che non rigetta i moduli sintattici e stilistici più propriamente sardi, immettendoli in un tessuto anche raffinato e comunque complesso, senza vergogne o sentimenti del limite. Uno scavo nella lingua e nel suo lessico da riscoprire nelle sue potenzialità, nelle sue risonanze, senza restar chiusi nella gabbia del realismo.
E dicevo anche una contraddizione. Tutto ciò, tutta questa dinamica produzione creativa e questa presa di coscienza sugli strumenti intrinseci della lingua, questo scavo memoriale nelle viscere di essa, avviene, in questo nostro oggi, proprio mentre il numero di coloro che parlano e anche comprendono il sardo diminuisce vertiginosamente e a vista d'occhio. Ma la contraddizione è forse solo apparente. Proprio oggi che la lingua italiana è più che dominante e ha sostituito il sardo in praticamente tutti le occasioni e le situazioni, in tutti i registri e gli usi, forse, la diglossia si sta risolvendo: sicché il sardo non è più il polo basso di essa. Oggi che si è formata una classe di intellettuali e di scrittori che in italiano sanno esprimersi con sicurezza e raffinatezza, il sardo non rappresenta più una minaccia o un ostacolo, dato che in pratica quasi non esiste più o comunque non lo si vede, né lo si sente; ma proprio per questo, e sembra un paradosso, il sardo è o sta diventando un'occasione, un serbatoio, che può essere svincolato dal pregiudizio antico, ma certo non distaccato dalle cose e dal pensiero, né marginato dall'esistenza, bensì tenuto dal filo della memoria. Esso è uno stimolo e una sfida alla creazione in lingua altra, una sfida quasi gratuita, che sa gettare ponti sgombri su modalità e maniere di pensare che si tenevano celate, col dubbio di sancirle come difettose e improprie: insufficienti. Ma che spesso e per tanti costituivano invece l'ossatura sottostante e sottesa del pensiero e della rappresentazione; cosicché gli ingegni migliori stanno riuscendo a sollevare il coperchio di una capacità potenziale per troppo lungo tempo rimasta infante e sotto tutela.
Se dunque gli scrittori sardi dei secoli passati, e fra questi il Delogu, oscillavano dialetticamente fra codici diversi in un quadro soprattutto plurilinguistico, gli scrittori in sardo di oggi riscoprono le strutture e il patrimonio lessicale più genuino (che però, non va dimenticato, è stato in tanta parte creato anche da persone come l'Araolla e il Delogu Ibba); mentre altri scrittori, diciamo così in lingua italiana (ricordo giusto Sergio Atzeni, ma altri si potrebbero ricordare, e non solo scrittori o letterati, ma anche uomini di teatro o chansonnier), fanno e hanno fatto tentativi di mescidanza linguistica, nella quale si può forse vedere una nuova frontiera linguistica e dell'identità: una linea che è costituita dall'azione di colorare di sardo la lingua che ci viene data come soverchiante, l'italiano appunto, svuotandolo dall'interno e addomesticandolo al significato di una sardità interiore: cosa che potrà riuscire a pieno se i letterati cesseranno di mescolare le due lingue soltanto per scopi di rappresentazione letteraria, per effetti di mimesi, ma imporranno sull'italiano le soggiacenti strutture sarde anche nei gangli più vitali del pensiero, nel lessico, nella fonetica, nella sintassi, nell'argomentazione.
Il problema resta dunque aperto a soluzioni molteplici non necessariamente escludentisi l'un l'altra. Staremo a vedere!
Maurizio Virdis