Nel 2002 il Centro di studi filologici sardi, facendo proprio un progetto che, con acuta sensibilità politica e culturale, era stato formulato fin dai pieni anni settanta, ha iniziato la pubblicazione di un corpus, il più completo possibile, della produzione scritta degli intellettuali sardi. I testi fino a ora apparsi, a volte sottoposti a cure filologiche non elementari, sono sempre accompagnati da ampie introduzioni e spesso affiancati da traduzioni e ricchi glossari. Nel contributo si rende conto dei volumi apparsi tra il 2002 e il 2004*.
La Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana ha iniziato a pubblicare, nell’agosto 2002, in modo sobrio e elegante, i volumi editi dal Centro di studi filologici sardi; di tali volumi intendo render conto, non omettendo di premettere alcune indicazioni generali. Vale infatti la pena di ricordare che i libri sono costruiti secondo, diciamo così, un modello fisso: introduzione di carattere storico; essenziale discussione filologica (in linea di massima ci si trova in presenza, per ora, di situazioni unitestimoniali o, comunque sia, non inseribili in uno schema lachmanniano) che può sfociare anche in un apparato, giustamente collocato a piè di pagina (e non, per fortuna, alla fine dell’opera, come spesso purtroppo avviene), dove si dà conto delle eventuali correzioni apportate al testo; illustrazione, quando necessario, delle prerogative linguistiche del testo; glossario, indici onomastici e toponomastici. Sottolineo questi elementi perché la struttura che governa ogni libro lascia capire che, alle spalle, c’è stata un’articolata riflessione, intesa a inserire ciascun volume entro un quadro progettuale preciso, sottraendo l’attività editoriale a quella sorta di avventurosa casualità (magari anche mossa da sincero entusiasmo) che può segnare iniziative come questa, dove, assai di sovente, solo l’inizio è noto.
I volumi sono articolati in due sezioni: «Testi e documenti» e «Scrittori sardi»[1]; nell’insieme i libri coprono un arco di tempo molto ampio: dal sec. XII agli inizi del XX. La sezione «Testi e documenti» è stata inaugurata, nel 2002, dall’edizione del Condaghe di Santa Maria di Bonàrcado, a cura di Maurizio Virdis (pp. CXCIX-390); il condaghe, pubblicato in modo eccellente, “raduna la registrazione di atti e memorie relative alla vita del monastero benedettino camaldolese di Bonàrcado [a Nord-Est di Oristano], dipendente dalla badia camaldolese di San Zenone di Pisa – e non quindi direttamente dalla casa madre di tale ordine monastico... Le registrazioni contenute nel... condaghe abbracciano un arco cronologico che parte... dalla data di fondazione dell’abbazia camaldolese di Bonàrcado, da ascriversi intorno al 1100... per giungere fino alla metà del XIII secolo” (p. XIII)[2].Nel 2003 la sezione si è arricchita di tre volumi, nel primo dei quali, Innocenzo III e la Sardegna, a cura di Mauro G. Sanna (pp. LXXXII-179), viene pubblicata criticamente la documentazione ‘sarda’ del pontificato di Innocenzo III; l’editore ha lavorato direttamente sui registri dell’Archivio Segreto Vaticano, e sui materiali conservati presso l’archivio di Stato di Pisa e di Genova; invece, per le minute agnanine e per i materiali di Montecassino si è avvalso di quanto già pubblicato da A. Mercantini, Nulli ergo omnino hominum... Testimonianze pontificie ad Anagni, «Latium», 17 (2000), pp. 5-103 e da A. Saba, Montecassino e la Sardegna medioevale, Montecassino, Badia di Montecassino, 1927. I documenti dell’Archivio Vaticano sono accompagnati dalla registrazione delle “eventuali differenze di trascrizione e di interpretazione con la precedente edizione più autorevole: quella di Othmar Hageneder per i primi due anni di pontificato e per gli anni 5° e 8°; quella di Migne per gli altri anni di pontificato; quella di Jean L.A. Huillard-Bréholles, per la pergamena del giuramento di fedeltà del 1215...” (p. LXXXI)[3]. Dal libro emerge, in particolare, lo sforzo condotto da Innocenzo III per riaffermare la sovranità papale, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista pratico, sull’isola, in opposizione a Pisa: che, un tempo alleata del Papato, si era trasformata in una nemica pericolosa. Nel secondo viene data una nuova edizione, per cura di S. Piras e G. Dessi, del Registro di San Pietro di Sorres (pp. LVIII-312) che è tràdito dal ms. Cagliari, Biblioteca universitaria, Sala manoscritti, S.P. 6.4.64, del sec. XV; l’edizione è preceduta da un’ampia introduzione storica di quel profondo conoscitore della storia religiosa e istituzionale della Sardegna che è Raimondo Turtas. Il codice, un brogliaccio degli atti del capitolo di San Pietro che si estende dal 1422 fino al 1503, che attiene cioè agli atti degli ultimi, scarsamente residenti vescovi di Sorres, prima dell’assorbimento di fatto della diocesi da parte dell’arcidiocesi di Sassari, presenta una ricca messe di dati relativi alla storia economica, sociale, morale del clero e dei fedeli della diocesi stessa; inoltre è una preziosa testimonianza per il logudorese antico; è, dunque, di grande utilità il poderoso glossario (pp. 195-305) che l’accompagna. Nel terzo volume viene infine pubblicato Il condaghe di San Michele di Salvennor, edito a c. di P. Maninchedda e A. Murtas (pp. LIV-314), cioè la raccolta dei registri patrimoniali degli abati che hanno governato il monastero di San Michele, nel caso specifico tra XII e XIII secolo; il condaghe è stato trasmesso, in una piccola parte, nell’originale logudorese (Madrid, Archivo histórico nacional, sección Usuna, legajo 635, cc. 21r-23v) e, nella parte maggiore, in una traduzione castigliana fatta probabilmente nel 1559, per i motivi bene illustrati dagli editori alle pp. XV-XXII del libro (Cagliari, Archivio di Stato, Antico Archivio Regio, AC4, b. 75). La traduzione castigliana non scema l’interesse del testo per gli studi di linguistica sarda, perché permane in esso “un insieme rilevante di termini del sardo logudorese antico” (p. VIII).
Inutile insistere sulla grandissima utilità – balza all’occhio da sola –, per gli studi genealogici, per quelli di storia istituzionale, sociale della Sardegna e per quelli sul sardo, e non solo sul sardo, di materiali come questi.
La sezione «Scrittori sardi», che nel 2002 ha visto pubblicati cinque volumi, può ritenersi idealmente aperta dalla più antica opera letteraria (almeno in senso lato) in lingua sarda a tutt’oggi nota, dall’edizione cioè di A. Cano, Sa vitta et sa morte, et passione de sancti Gavinu, Prothu et Januariu, curata da Dino Manca (pp. CXLIII-204)[4]. Si tratta di un poemetto agiografico di 1096 vv. che narra le vicende dei martiri turritani; conosciuto in un unico esemplare a stampa che risale al 1557, l’opera dovrebbe essere stata scritta da Antonio Cano che resse l’arcidiocesi di Torres dal 1448 al 1476; merita sottolineare che l’apparato che accompagna il testo è positivo e riporta le lezioni, accettate e rifiutate, dell’ed. Wagner e dell’ed. Alziator; anche merita sottolineare che mentre una traduzione in italiano corre a piè di pagina, in appendice viene stampata la Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii a c. di G Zichi[5].
All’edizione di Sa vitto et sa morte si potrebbe far seguire, nel rispetto della successione temporale, Il libro sardo della confraternita dei disciplinati di Santa Croce di Nuoro (XVI sec.), a cura di Giovanni Lupinu (pp. LIV-124); il Libro è trasmesso da un codice nuorese di 87 ff. che “documenta l’esistenza e l’attività della locale confraternita di Santa Croce, fondata dal gesuita sassarese Giovanni Vargiu” e rappresenta “il più antico libro confraternale in sardo pervenutoci [1579], più antico anche, come redazione materiale, di quello di Nule” (p. XV); con ogni probabilità giunto dalla penisola, scritto originariamente in italiano e in latino, il libro venne poi tradotto in sardo. Il codice non viene edito nella sua interezza; vengono pubblicati l’Officium della disciplina, l’Officium mortuorum, alcune preghiere, la lettera di approvazione della confraternita di Santa Croce di Nuoro da parte del vescovo di Alghero Andrea Baccallar, nuove preghiere e benedizioni e, infine, i capitoli della confraternita. La scelta di pubblicare circa i tre quarti del manoscritto si fonda sul fatto che quanto viene edito è, nella sostanza, omogeneo e cronologicamente abbastanza compatto, a differenza delle sezioni tralasciate (più o meno gli ultimi trenta ff. del codice), in parte vergate nel settecento. L’editore propone di riconoscere nella lingua del testo “una lingua paraliturgica stratificata che s’incanala nell’alveo del cosiddetto ‘logudorese illustre’...: tuttavia, il carattere speciale del testo, una traduzione, accentua in modo vistoso una componente italiana non integrata di fonetica, lessico e sintassi, mentre la componente iberica è al confronto esigua” (p. XLII). Nella ‘Nota al testo’, oltre alla esplicitazione dei consueti interventi di normalizzazione, Lupinu, molto opportunamente, fornisce un elenco completo dei termini sardi scritti in modo abbreviato sul manoscritto (pp. L-LIV); inoltre correda il testo medesimo con un apparato dove vengono registrate le lezioni migliorative rispetto al ms. di Nuoro tràdite dal codice di Nule – che appartiene, pur non essendo privo di tratti propri, alla medesima tradizione di quello di Nuoro –. Le caratteristiche del Libro indurrebbero a sottolineare che la sua collocazione più appropriata sarebbe stata nella serie «Testi e documenti» piuttosto che in quella «Scrittori sardi»; in verità, seppur con giusta cautela, Giovanni Lupinu suggerisce che alle spalle della redazione italiana del libro confraternale possa esserci il gesuita Vargiu, cui sarebbe forse toccato “un ruolo attivo non soltanto nella promozione dell’attività della compagnia di Santa Croce di Nuoro, secondo quanto è affermato esplicitamente nel testo, ma anche nella stesura del suo libro confraternale: ciò vale per la determinazione dei contenuti ma, possibilmente, anche per la forma linguistica assunta dal documento a noi giunto” (p. XLV). Anzi Lupinu avanza un’altra allettante ipotesi: “si potrebbe pure ipotizzare, in maggior grado di alea, che anche la traduzione del testo italiano in logudurese sia maturata in quest’ambiente, ad opera del Vargiu o di un’altra personalità legata allo stesso ordine religioso. Mentre a Sassari e nei dintorni [da dove la tradizione settentrionale dei disciplinati sardi prese avvio] continuava a essere usato l’antico dettato italiano del testo confraternale... allorché ci si spinse verso il centro dell’isola si dovette rendere necessaria una traduzione in sardo” (pp. XLV-XLVI).
Di cronologia più bassa, ma di non minore interesse sono invece La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna di Giuseppe Cossu (1739-1811) e Le piante di Domenico Simon (1758-1829), opere entrambe edite per cura di Giuseppe Marci (il primo di pp. LXXIV-516; il secondo di pp. LIV-92). Il Cossu fu avvocato e economista, Censore generale dei Monti frumentari; divenne, “nel 1767... Segretario della giunta istituita per amministrare i Monti frumentari e quindi, nel 1770, Censore generale, in pratica il massimo dirigente dei monti...” (Le piante, p. XL); fu un “funzionario zelante e intelligente... e si applicò al suo compito con passione sempre animato da uno straordinario interesse per i problemi dell’agricoltura, del commercio, dell’economia della Sardegna” (Le piante, p. XLI); questa passione lo portò spesso a assumersi “compiti che andavano al di là degli incarichi propri del suo ufficio: elaborò bilanci, confutò obiezioni, compose Istruzioni per le amministrazioni locali, raccolse, a uso dei censori, ‘le diverse leggi agrarie del Regno’ (Le piante, p. XLI). Da questa molteplice attività discesero una massa di relazioni e istruzioni, ma derivarono anche opere organiche; tra esse merita di essere ricordata la pubblicazione, a Cagliari, tra il 1788 e il 1789 (e sulle date varrebbe la pena di riflettere, alla luce di quanto stava accadendo in Francia), de La coltivazione dei gelsi, che comprende la Moriografia sarda ossia catechismo agrario proposto per ordine del regio governo alli possessori di terre, ed agricoltori del regno sardo e la Seriografia sarda ossia catechismo del filugello proposto per ordine del regio governo alle gentili femmine sarde; “con questi due testi, scritti in sardo campidanese, l’autore intende contribuire a creare per la sua patria ‘una compiuta terrena felicità, quanto si può questa dalle cose temporali sperare’: se la Sardegna ‘finora è stata della classe delle consumatrici, e tributaria di rilevanti somme alla Spagna, Francia, Genova, Napoli e Firenze per le copiose provviste delle sete, che [...] ivi si fanno, produrrà d’ora innanzi un compenso a controbilanciare l’uscita della moneta e a mantenere senza discapito l’uso della seta, giacché dall’odierna raffinata e morbida polizia viene questo caratterizzato per necessario’ (La coltivazione, p. XXXVII). Si tratta in verità di un vero e proprio manuale di istruzioni per agricoltori; la Moriografia si articola in sette lezioni e la Seriografia in sei; significativo il fatto che i testi siano, per ampie parti, bilingui; alla versione in campidanese se ne affianca una in italiano. E la lingua – le lingue dell’opera – è illustrata in pagine lucide da Eleonora Frongia (La coltivazione, pp. LXI-LXXIV) che mette bene in evidenza la specificità dei mots témoins (parole che “riflettono idee e ‘concetti nuovi filtrati attraverso la coscienza degli scrittori”: p. LXI) presenti nel testo, molti, non tutti, coniati nell’età dei lumi; si incontrano locuzioni come s’antiga barbara tirania (l’antica barbara tirannia), sa bona filosofia (la buona filosofia), spiritu filosoficu (spirito filosofico), ominis litteraus (uomini letterati), naturalesa umana (natura umana), e ‘voci’ quali luxi (lumi), progetu (progetto), umanitadi (umanità), (ar)rexoni (ragione). Ma la Frongia mette anche in evidenza come “la versione sarda del testo” sia “più aderente ad un linguaggio quotidiano rispetto a quella italiana per la quale il Cossu, introducendo arcaismi e aulicismi, sembra invece sentire il peso della responsabilità letteraria” e manifesti “una ricchezza lessicale tale da meritare l’attenzione degli storici della lingua prima ancora degli studiosi di letteratura”. “Se è vero che tratti della redazione bilingue di questi scritti didascalici – dice ancora Eleonora Frongia – riflettono scientemente l’assortimento dei destinatari e la loro cultura di riferimento, è allora innegabile che un campidanese così duttile, completo, aperto ai tecnicismi e agli influssi esterni... è frutto di una cultura sorprendentemente moderna e offre al lettore uno spaccato della vita e della lingua sarda settecentesca non altrettanto disponibile in altre opere” (pp. LXIX-LXX).
L’opera di Domenico Simon apparve invece nel 1779 a Cagliari; il Simon, di nobile famiglia ligure trapiantata ad Alghero, conseguì la laurea in giurisprudenza a Cagliari e “nello stesso anno fu ricevuto socio del collegio di belle-arti in quella regia università di studi” (p. X); ebbe vari incarichi di tipo politico-amministrativo, fra i quali primo fu quello di vice-censore generale dei Monti di soccorso, a fianco di Giuseppe Cossu “che di quell’istituzione, nata nel 1783, era il Censore generale”. Partecipò da protagonista ai fatti del 1793 e fu tra coloro che vennero eletti “nella deputazione incaricata di presentare al sovrano le cinque domande dei sardi che, nella sostanza, richiamavano i piemontesi all’osservanza ‘delle leggi fondamentali del Regno” (p. XV). L’accoglienza che la delegazione stamentaria aveva avuto a Torino “era stata quanto meno irriguardosa e basterà dire che Vittorio Amedeo III preferì comunicare al viceré e non ai deputati presenti a Torino, le risposte, sostanzialmente negative, alle domande che gli erano state poste dai sardi” (p. XVI). Il fallimento della missione provocò divisioni fra i deputati, così che nel giro di pochi giorni il Simon decise di procrastinare sine die il suo ritorno in Sardegna: e non vi ritornò più. Visse a Torino, in povertà assoluta (aveva rinunciato, nel 1818, a una pensione elargitagli dal sovrano), accettando qualche invito a cena per pura necessità di sostentamento, studiando intensamente la notte e dormendo durante il giorno. Si spense a Torino, all’età di settant’anni, il 10 gennaio 1829, dopo aver dato alle stampe un consistente numero di scritti, che vanno dalla storia sacra alla geografia alla storia letteraria. Le piante è un poemetto in ottave, in quattro canti; i primi due abbracciano la trattazione propriamente scientifica del tema, comunicando al lettore “un sentimento di ammirazione per i progressi della ricerca che si fonda sulle moderne metodologie d’indagine dalle quali derivano le scoperte riguardanti la germinazione delle piante e dei funghi, la circolazione del sangue e dei ‘lievi umori’ nell’organismo umano, della linfa nelle piante” (p. XLVII). Il terzo canto si focalizza sui “benefici che la Sardegna potrebbe ricavare da un’adeguata opera di forestazione. Il discorso è prospettato con l’introduzione di un effetto straniante, il punto di vista esterno proprio di chi viene dal Continente e vede l’isola ‘desolata’ e ‘nuda’, senza un filo d’ombra che ripari il viaggiatore dai raggi del sole cocente. C’è da chiedersi come mai, nel corso dei secoli, siano state compiute tante imprese di guerra ‘per conquistare una spogliata terra’, una terra che la natura aveva favorito ma che gli uomini non avevano curato. Il discorso è naturalmente rivolto agli abitanti che non hanno compreso i vantaggi derivanti dalla coltura delle piante. A questo punto le ottave del Simon si allontanano dalle considerazioni naturalistiche per affrontare un tema economico sul quale l’autore ha idee molto precise. La Sardegna è costretta a importare il legname necessario al suo fabbisogno, con evidenti vantaggi per produttori e mercanti” (pp. XLVII-XLVIII); come il Cossu e come il Porqueddu, il Simon sostiene che “l’economia sarda è in una condizione precaria perché troppi prodotti debbono essere importati” (p. XLVIII). Ma il Simon censura anche la ‘pigrizia’ dei sardi; “non è pensabile che la terra produca senza un sapiente intervento dell’uomo: la pastorizia tradizionale e un’agricoltura d’accatto” non bastano più (p. XLIX). Il quarto canto infine è una sorta di apologia della bellezza delle piante, dove, peraltro, dopo le imprescindibili pennellate arcadiche (piagge amene, sorgenti cristalline e terse, verdi arbuscelli ecc.) si ripropone il discorso delle “campagne sarde desolate, prive di vegetazione e, quindi, indifese nei confronti della ‘sferza estiva’” (p. L).
L’uno e l’altro, il Cossu e il Simon rientrano, pleno iure, con altri scrittori quali il Manca dell’Arca, il Porqueddu e, su altro fronte, il Carboni e il Valle, tra i didascalici sardi; “la loro riflessione e le opere che composero – ricorda Giuseppe Marci: Le piante: p. XLIV – non sono testimonianza di una stagione, interrotta dal fallimento del processo di riforma, ma piuttosto rappresentano il fecondo avvio di una prospettiva di scrittura, in italiano e in sardo, che racchiude le speranze politiche e si alimenta nell’amore per la patria sarda”. I didascalici sardi rappresentano insomma – lo ricorda ancora Marci, citando la Sannia Nowé – “... lo sforzo ragguardevole compiuto dalla classe dirigente, in quegli anni, per strappare il paese all’arretratezza e all’isolamento”; e le forme letterarie e linguistiche di volta in volta scelte “ben lungi dall’essere strumento inerte della comunicazione, stimolano la produttività degli autori e agiscono persuasivamente sui destinatari” (La coltivazione, p. LIX).
L’ultimo volume apparso nel 2002 è quello dedicato all’edizione dell’inno di Francesco Ignazio Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di Luciano Carta (pp. CCLV-121). Il Mannu, nato a Ozieri il 18 maggio 1758, compì gli studi a Sassari “dove frequentò il corso filosofico e la facoltà di giurisprudenza; conseguì la licenza in leggi nel 1781 e successivamente la laurea. Trasferitosi a Cagliari, vi esercitò la professione legale” (p. XX). Ebbe un ruolo rilevante nei moti iniziati nel 1793; nel 1795, dopo la vittoria del partito patriottico, fu nominato giudice aggiunto della Sala civile della Reale Udienza; nel 1796, a seguito dell’infelice epilogo della lotta antifeudale “portata avanti dalla componente più avvertita del partito patriottico sotto la guida di Giovanni Maria Angioy” (p. XLII), il Mannu compare, in una nota del 13 giugno 1796 redatta dalla deputazione stamentaria, “tra un manipolo di persone indesiderate e se ne propone l’esilio ‘all’isola di San Pietro’” (p. XLII). Non si sa se davvero dovette, come altri, sopportare l’esilio; quando venne restaurata la monarchia sabauda “e con la permanenza della Corte a Cagliari a partire dal 1799, il Mannu appare perfettamente integrato nell’alta burocrazia dell’epoca, all’interno della quale percorse una brillante carriera. Nel 1807 fu nominato giudice effettivo nella Sala Civile della Reale Udienza. Non pare tuttavia che abbia mai deposto, nel governo degli affari pubblici, quel rigore che lo contraddistinse nel periodo rivoluzionario. Nel 1816, infatti, egli venne rimosso dall’incarico di giudice della Sala criminale della Reale Udienza e assegnato a altro incarico perché in disaccordo con il viceré Carlo Felice che per combattere la criminalità dilagante voleva applicare procedure economiche nei processi penali. Nel 1818 fu nominato giudice aggiunto nel Magistrato del Consolato, tribunale di nuova istituzione incaricato di dirimere le controversie sul commercio” (p. XLIII); si spense a Cagliari il 19 agosto 1839, lasciando all’ospedale della città l’ingente patrimonio di 40.000 scudi. L’inno, in 47 ottave di ottonari con ritornello (ottava torrada), riproduce una struttura metrica usata nei gosos, “generalmente cantati dalle popolazioni rurali” in onore dei santi (p. LIII); la struttura rimica prevalente è A BB CC DD E, con rime irrelate in prima e ultima sede e baciate all’interno dell’ottava; in tutto il componimento l’ultimo verso termina in -ìa per 15 volte e in -àre per 32, forse nella ricerca, soprattutto per l’uscita maggioritaria, di un esito verbale facilmente memorabile. Le idee base del componimento, ricorda il curatore accettando le osservazioni di Maria Antonietta Dettori, sono due e cioè “la necessità di porre fine al sistema feudale, o forse sarebbe meglio dire alla sua degenerazione, e quella di denunciare il malgoverno e le vessazioni dei funzionari piemontesi”; e due sono “anche gli espliciti destinatari: i feudatari e il popolo, in particolare le popolazioni rurali” (p. LVII). L’inno, insomma, è il canto “di una delle tante rivoluzioni germinate nella temperie culturale e politica del Settecento riformatore” (p. CCXLIII).
Il canto è accompagnato da una amplissima introduzione storica; segue una essenziale premessa filologica che ci informa di come l’edizione sia stata condotta sul testimone conservato nella Misc. 1494/1 della Biblioteca universitaria di Cagliari, un fascicoletto stampato in clandestinità e senza note tipografiche; a piè di pagina si sviluppa un apparato dove l’editore si impegna a rendere conto di una tradizione non razionalizzabile secondo procedure lachmanniane, dal momento che, “mentre la princeps, l’edizioni Nurra, e quella Garzia [Nurra 1897; Raffa Garzia 1899] partono... da una tradizione manoscritta già interferita dall’oralità, le altre edizioni [in numero di cinque, dal 1849 al 1979] risentono da una parte di una sorta di testo vulgato oralmente e dall’altra dei gusti dei singoli curatori” (pp. CCLIV-CCLV). L’inno è corredato da una traduzione di servizio in italiano e da un puntuale commento filologico e storico.
Il 2003 ha visto la pubblicazione di un numero ancora maggiore di testi, ben sette. Anche in questo caso, per procedere in ordine cronologico, si può iniziare la rassegna dal De bellu et interitu marchionis Oristanei, edito da M.T. Laneri, che affianca al testo latino la traduzione italiana (pp. CXVI-191). Il De bellu, che dovrebbe risalire alla metà del sec. XVI, è opera di un ancora abbastanza misterioso Proto Arca, forse un religioso vissuto intorno alla metà del sec. XVI, ma, in ogni modo, diverso dal più conosciuto Giovanni Arca. L’edizione, fondata sul ms. Cagliari, Biblioteca universitaria, fondo Baille, S.P. 6.9.28, del 1592, unico testimone realmente utile al processo ecdotico, tiene conto anche del ms., ascrivi-bile a un periodo compreso tra il 1598 e il 1604, Cagliari, Biblioteca universitaria, fondo Baille, S.P. 6.7.55 che trasmette, autografa, “la Naturalis et moralis historia de regno Sardiniae dell’ex gesuita bittese Giovanni Arca; il VI libro di tale trattazione storico-geografica, il cui titolo specifico è Bellum marchionicum, riporta infatti la medesima storia trasmessa dal codice [S.P. 6.9.28], ma sotto forma di piatta riscrittura” (p. VII). L’editrice è pienamente consapevole che la ‘riscrittura’ dell’opera da parte di Giovanni Arca rende tuttavia assai scarsa l’autorità e quindi l’utilità di questo codice, equiparabile – ai fini della ricostruzione del testo originale – a un testimone di tradizione indiretta; a ciò s’aggiunga il fatto che il secondo autore poté usufruire di un esemplare dell’opera anch’esso apografo e gravemente corrotto sul quale, per di più, operò parecchi tagli, anche in passaggi fondamentali della narrazione. Il testo di Giovanni Arca viene perciò in soccorso in un numero limitato di casi...” (p. CIX). L’opera narra le gesta di Leonardo d’Alagón fino alla disfatta di Macomer (1478), fino cioè al crollo del marchesato di Oristano, di cui era stato investito l’Alagón, e la sua definitiva annessione alla Corona di Aragona.
Nel 1736, a Villanova Monteleone, venne stampata da Giuseppe Centolani, che “in quel centro aveva trasferito la sua attività prima esercitata a Sassari” (pp. XVII-XVIII), l’opera Index libri vitae di Giovanni Delogu Ibba. Dell’autore poco si sa; le notizie delle quali si dispone risalgono all’erudizione sarda di primo Ottocento che narra come il Delogu Ibba fosse stato “vicario foraneo, consultore del santo uffizio ed esaminatore sinodale, oltre che, per mezzo secolo parroco di Villanova Monteleone”; narra pure come “nella medesima terra di Villanova Monteleone egli si addormentasse nel Signore il 21 agosto 1738...”[6]. L’Index libri vitae è un’opera voluminosa, divisa in sette parti, le prime cinque scritte in latino (edite a cura di F.M. Aresu), la sesta (edita a c. di A. Luca de Martini) e la settima (edita a cura di G. Marci) in castigliano e logudorese (pp. XXXIII-804)[7]. La materia delle prime cinque parti è rappresentata da epigrammi, vari nel numero per ogni parte, che toccano rispettivamente la vita e la morte di Cristo, i principali misteri della vita della Vergine, i principali misteri riguardanti Gesù Cristo e la Vergine (in forma di domanda), lodi dei santi disposte secondo i mesi nei quali i santi sono onorati, vari misteri religiosi; quella della sesta è rappresentata da settantuno Gosos, cioè inni sacri, dei quali cinquantasette scritti in lugudorese e quattordici in castigliano; infine la settima parte è occupata dalla sacra rappresentazione in logudorese Tragedia in su isclavamentu de su sacrosantu corpus de Nostru Sennore Iesu Christu,seguita da Redondillas subra sa passion recopilada e dalla Glosa sul Dies irae. La lingua della quale fa uso il Delogu Ibba, almeno per quanto riguarda i Gosos e la Tragedia, non è propriamente una varietà di sardo parlato, quanto piuttosto una “lingua illustre appartenente non tanto alla sfera dell’oralità quanto a quella della scrittura, e, in primo luogo, della scrittura poetica” (p. XI). Dall’Index emerge come l’autore “conosca e, se così si può dire, padroneggi più lingue: il latino, il sardo, il catalano, il castigliano e l’italiano. Le sente sue e ne dispone con disinvoltura, ovverosia senza soggiacere a pregiudizi di tipo puristico e quindi plasmando tutte le neoformazioni delle quali abbia bisogno per un testo che non è né pastorale né rustico ma, al contrario, abbisogna di un repertorio lessicale e di uno stile adeguati all’altissimo obiettivo cui mira: rappresentare il dramma della passione e della morte di Nostro Signore Gesù Cristo, cantare le lodi dei Santi, raccontare. la storia della loro vita eroica” (pp. XI-XII).
In un clima assolutamente diverso portano le Note sarde e ricordi di Giuseppe Manno, opera che, curata da E. Frongia, rivede la luce dopo l’ed. del 1868 (pp. XCV-208); aprono il libro due ampi saggi, il primo per cura di A. Accardo, L’ultimo guizzo della fiamma morente: Note sarde e ricordi, pp. VII-LV, il secondo di G. Ricuperati, Fra memoria e cantiere di lavoro: la riflessione di Giuseppe Manno, pp. LVII-XCII. Giuseppe Manno nacque nel 1786 e, dopo la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1804 a Cagliari, iniziò una carriera di grand commis, che lo vide attraversare un momento particolarmente complesso della storia del regno di Piemonte e Sardegna e poi d’Italia, ricoprendo incarichi di sempre maggiore responsabilità. Nominato, a partire dal 1807 “sostituto sovrannumerario dell’avvocato fiscale regio di Cagliari” (p. XII), nel 1816 Carlo Felice lo volle presso di sé come segretario particolare nel viaggio politico-diplomatico attraverso la penisola. Giunto a Torino nel 1817, fu primo ufficiale della Segreteria di stato per gli affari di Sardegna e, nel 1818, ricevette il titolo di giudice della Reale udienza cagliaritana; dal 1819 ebbe a collaborare, per un ventennio, con Prospero Balbo, dando da subito il proprio contributo all’editto sulle chiudende. Mantenne un atteggiamento di cauto e prudente conservatorismo durante i moti del ‘21 e, richiamato da Carlo Felice, ora sovrano, come segretario particolare, venne nominato, nel ‘23, componente del Supremo consiglio di Sardegna. Tenne negli anni 1840 e ‘41 lezioni di storia e economia politica ai figli di Carlo Alberto, Ferdinando e Vittorio Emanuele. Dal 1848 presidente della Corte d’appello di Torino, fu poi senatore e, per varie volte, presidente del Senato del regno. Venne collocato a riposo nel dicembre 1865, in un modo un po’ brusco che non mancò di suscitare qualche polemica e di lasciare amareggiato il Manno. Giuseppe Manno si spense il 25 gennaio del 1868. Ma il Manno fu anche uno storico di vaglia cui si devono una Storia della Sardegna, 4vv, Torino, Alliana-Paravia, 1825-27, giudicata dal Croce tra le storie locali “una delle più notevoli per accuratezza di ricerche e di forma” e una Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, Torino, Favale, 1842. Il Manno insomma, per usare le parole di Ricuperati, “fu il più autorevole storico della Sardegna fiorito nell’Ottocento ed insieme forse un quasi perfetto esempio di integrazione fra un’identità locale e quella nazionale, giocate attraverso la professionalità del funzionario, fino a diventare un modello di dedizione allo stato” (p. LVIII). Furono probabilmente queste due componenti, di storico legato alla propria patria e di funzionario dedito allo stato, che diedero al Manno la possibilità di evitare nelle Note sarde e ricordi, in certo senso inscindibili dalle due opere storiche maggiori, “il rischio di trasformare in narcisistica celebrazione o in patetico rimpianto il racconto di momenti di una lunga e straordinaria esperienza letteraria, politica ed amministrativa. L’opera appare di singolare vivacità e freschezza, capace ancor oggi di attrarre il lettore con un dosato amalgama di notizie, curiosità, aneddoti, riflessioni all’interno di una trama narrativa di taglio estremamente dinamico e moderno... dove trova uno spazio non marginale anche una sottile e divertente ironia...” (pp. IX-X).
Giuseppe Todde nacque nel 1829 a Villacidro, dove il padre era medico condotto; laureatosi in giurisprudenza a Cagliari fu inviato a Torino per seguire i corsi di perfezionamento che venivano impartiti presso quella facoltà di legge; restò tre anni a Torino, avvalendosi soprattutto dell’insegnamento di Francesco Ferrara e quando tornò in Sardegna si impegnò nell’attività giornalistica, collaborando a Lo Statuto, e in quella accademica, prima come incaricato nel 1853 di Diritto pubblico, poi, nel 1854 di Diritto costituzionale e di Economia politica nella facoltà di giurisprudenza di Cagliari. Vincitore della cattedra di Economia politica e Diritto commerciale all’Università di Sassari, insegnò poi a Modena, per ritornare a Cagliari a insegnare, nella facoltà di giurisprudenza prima Economia politica e Diritto commerciale e poi, separate le cattedre, Economia politica. Dal 1889 al 1890 fu rettore dell’ateneo cagliaritano. Allievo di Ferrara, Todde si trovò a vivere in un momento in cui il dibattito teorico si impregnava degli umori della lotta politica; la scuola marginalista, che pure si muoveva lungo percorsi diversi da quelli battuti da Ferrara, in Italia faceva riferimento proprio a Ferrara; a essa si contrapponevano i così detti “socialisti della cattedra”, sostenitori di scelte protezionistiche e favorevoli a un intervento dello stato “per favorire la nascita dell’apparato industriale dell’Italia settentrionale”[8] (p. XIX). Todde dal punto di vista teorico è un seguace strenuo di Ferrara, ma si interroga su come usare tale apparato teorico “di fronte ai problemi sociali emergenti”[9] (p. XX); e due sono i problemi emergenti negli scritti di Todde: “quelli che scaturiscono dalla ‘questione sociale’ e quelli relativi alle condizioni economiche della Sardegna. In entrambi i casi la teoria economica ferrariana rappresenta per lui un solido quadro teorico di riferimento, che gli consente di affrontare problemi e proporre soluzioni, come terreno di continua verifica della solidità e della fondatezza della teoria economica. Ma in questo esercizio di verifica continua, di messa alla prova della sua capacità di resistenza, la teoria economica ferrariana subisce in realtà una metamorfosi notevole, per quanto riguarda il suo ruolo e la sua utilizzazione. Ed è per questa ragione che la distinzione fra economia pura e economia applicata è il filo conduttore più interessante e rivelatore degli scritti di Todde...”[10]. I contributi di Giuseppe Todde, raccolti nel citato Scritti economici sulla Sardegna..., pp. XXXVII-421, sono coerenti con il suo liberismo. Infatti “si tratta di liberare la Sardegna dai condizionamenti e dai gravami imposti da uno Stato che [per il Todde] pecca di una eccessiva ingerenza nell’attività economica, e impedisce così che una regione come la Sardegna possa esprimere pienamente le sue potenzialità. Fra le proposte di Todde, la zona franca viene vista come lo strumento essenziale per dotare la Sardegna [di] un sistema economico non condizionato dall’intervento dello Stato. Il programma di Todde non è né federalista né autonomista; anche se, nella sua ansia di emancipare la Sardegna, egli si ‘incontra’ quasi naturalmente con le prime manifestazioni di idee autonomiste” (pp. XXXVI-XXXVII).
In un ambito più propriamente letterario conducono le ultime tre opere pubblicate dal Centro nel 2003: G. Saragat e G. Rey, Alpinismo a quattro mani; A. Mura Poesia ininterrompia e Campusantu marinu, traduzioni da P. Eluard e P. Valéry; S. Satta, L’autografo de Il giorno del giudizio. Il primo, Alpinismo a quattro mani, nasce dalla collaborazione fra Guido Rey, mitica figura dell’alpinismo italiano, scrittore, nipote di Quintino Sella che fu fondatore del CAI, e l’avvocato, giornalista e scrittore di origine gallurese, ma nato a Sanluri nel 1855 e attivo a Torino dal 1880, Giovanni Saragat; pubblicato per la prima volta nel 1898 (è questa l’edizione riproposta per cura di G. Marci, che dà conto anche delle varianti presenti nell’ed. Lattes, s.a., ma 1921, e che premette un’ampia introduzione; Ignazia Tuveri invece redige la biografia di Saragat e la bibliografia dei suoi scritti: pp. XCIV-150), il libro mette in contatto il fine umorismo di Saragat con il tratto di alpinismo tecnico, ma anche romantico e perfino lirico nella scrittura, di Rey e fonde l’invenzione letteraria col racconto d’ascensione. Soprattutto, entro il piano editoriale complessivo del Centro, Alpinismo a quattro mani, se criticamente letto assieme agli scritti d’ambientazione sarda “può servire... per comprendere attraverso quali faticosi e costosi processi quel progetto di fusione [in un unico popolo di soggetti culturalmente eterogenei degli stati preunitari] si è realizzato, il senso che ha avuto per ciascuna entità etnica concorrente al suo sviluppo, i modi e il valore, anche attuale, della costruzione di una morale e di una cultura comune” (pp. LVIII-LIX). Gli altri due volumi aprono invece sul settore della filologia d’autore. Le intense traduzioni di Antonio Mura (Nuoro 1926 – Venezia 1975) da Eluard – Poesia ininterrompia venne premiata nel 1970 nella sezione «Traduzioni» del premio Ozieri – e da Valéry sono curate da D. Caocci (pp. LXXV-105); come ricorda Caocci, nell’allestire l’edizione di Poesia ininterrompia “abbiamo riportato la variantistica in base al numero del verso, facendo precedere la lectio ‘definitiva’, cioè quella della versione licenziata dall’autore in occasione della partecipazione alla sezione traduzione del Premio Ozieri nel 1970 (dattilo-scritto F aggiornato dalle varianti a penna)... L’apparato è sempre positivo (cioè riporta anche le lezioni che concordano con quella promossa a testo ‘definitivo’ dall’autore) tranne il caso di F. La scelta è giustificata dal fatto che F riporta quasi tutti i casi di lectio di E [che con il ms. A e i dattiloscritti B, C, D costituisce il testimoniale dell’opera]. Quindi tutte le volte che la lectio di E non concorda con quella ‘definitiva’ significa che ‘a testo’ si trova la lectio di F, e, ogni volta che in apparato è presente F, si deve intendere che la lectio definitiva è quella delle correzioni a penna su F. Questo tipo di apparato è l’unico che possa suggerire... l’idea di un lavorio di elaborazione e il percorso seguito dall’autore” (p. LXXIII). Per la traduzione invece di Le cimitière marin, che è rimasto, in verità, un esercizio celato, l’editore si è attenuto all’unico testimone, un dattilo-scritto di 5 ff. con correzioni a pennarello nero e un unico intervento in penna a sfera blu; la riproduzione del dattiloscritto è posta a fronte della traduzione, così da dare al lettore completi elementi di giudizio. In coda al volume sono pubblicati gli originali francesi dei testi tradotti. Anche l’edizione del manoscritto de Il giorno del giudizio, curata da Marci (pp. XXXIII-434; da p. 424 a p. 434 il Glossario delle cose notevoli e l’indice dei Toponimi, per cura di E. Frongia) porta all’interno dell’officina di Satta, fornendo il testo del manoscritto (M) e, in apparato, quello del dattiloscritto (D), seguito da quello delle edizioni Cedam 1977 (princeps), Adelphi 1979 e Ilisso 1999 dell’opera. Marci illustra il processo rielaborativo condotto da Satta, così come si ricava alla luce di M, raffrontato appunto con D che è il punto d’avvio della tradizione editoriale. E utile notare anche che già per la princeps si ponevano dei problemi; infatti il testo era stato impresso dopo la morte dell’autore e privato di “quel lavoro di accompagnamento che la vigile coscienza autoriale in genere dedica alla propria opera nella delicata fase precedente la stampa” (p. VII); inoltre gli eredi di Satta, “per comprensibili ragioni etiche e giuridiche” (p. VII) avevano operato cambiamenti onomastici e toponomastici.
Nel 2004 il Centro ha ridotto il numero di volume pubblicati, attestandosi a quattro titoli, ma uno in ben sette tomi: la Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña dividida en siete partes, di F. de Vico. La Historia, pubblicata, sull’unica edizione di Barcellona, 1639, da Marta Galiñanes Gallén, che si avvale dei consueti criteri di modernizzazione grafica in uso per l’edizione dei classici spagnoli, è aperta da una dotta e lucida introduzione di F. Manconi (pp. LXXXII) e chiusa da poderosi indici, a c. di T. Deonette, G. Dessi, R. Lai, A. Murtas (v. VII, pp. 183-402). Francisco de Vico non fu uno storico di professione; dopo la laurea a Pisa in utroque, iniziò, nel 1606, la carriera di letrado come giudice della Real Gobernaciòn del Capo di Logudoro giungendo, dopo essere diventato giudice della Real Audiencia di Sardegna, a occupare il posto di regente nel Supremo Consiglio di Aragona con l’incarico di governare, all’ombra del conte duca di Olivares, gli affari del Regno di Sardegna. Sassarese, fino a quando fu regente, si comportò con decisa partigianeria a vantaggio dei concittadini, in uno scontro che opponeva Cagliari a Sassari, scontro “che riguardava il primato politico, la difesa di preminenze e prerogative, la ricerca continua di conferme e di amplia-menti del corpo dei privilegi municipali” (p. XVI). Intorno agli anni venti-trenta del sec. XVII “si fa largo fra le élites sarde la consapevolezza che il problema del primato [tra Cagliari e Sassari] è problema culturale, morale e politico ad un tempo. Nel vasto mondo della Monarchia ispanica, di cui la Sardegna è parte, le sorti delle collettività politiche dipendono sempre più dalle idee, dai sentimenti e dalle credenze dei governanti, non meno che dalle istituzioni di governo... Vico è consapevole della natura ideologica del discorso storiografico e acutamente coglie la necessità di porre in relazione pratica politica e analisi storica. Bisogna che la contesa assuma una caratterizzazione politica più ampia che faccia forza su un’opinione pubblica il più possibile allargata e cosciente del prossimo passato collettivo. Si fa strada così nel letrado Vico, nell’uomo di diritto, l’idea di farsi storico” (pp. XIX-XX). Ma la difesa del primato cittadino non collide in Vico – giusta un modello storiografico che si impone a inizio Seicento – con “l’accettazione dello stato plurinazionale ricondotto ad unità nella persona del re” (p. XXVIII); gli è possibile dunque “celebrare l’eccellenza della storia di Sassari e magnificare la lealtà dei suoi concittadini verso la Monarchia degli Asburgo. Antichità archeologiche, genealogie incredibili, santi e reliquie a profusione, scrittori antichi e moderni di diversa attendibilità vengono usati indiscriminatamente in un disordinato quanto grandioso pastiche storiografico per sostenere una causa politica scopertamente di parte... Vico è in ogni senso uno spagnolo dell’età barocca e la sua Historia è da considerarsi ‘veritiera’ non perché sia una storia attendibile ma perché è capace di rappresentare una provincia ispanica con le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue credenze... Per meglio dire, la sua Historia general lascia intendere, più di qualunque altro documento dell’epoca, quali siano i connotati culturali e politici della società sarda del Seicento... una società profondamente ispanizzata e partecipe senza riserve dei destini della Monarchia degli Austria, una società divisa – al pari di qualunque provincia ispanica – dai particolarismi e dalle lotte di gruppi di potere impegnati a conquistare o consolidare posizioni politiche e privilegi individuali e collettivi” (pp. XLVI-XLVII).
Riconduce ai didascalici sardi invece l’edizione di A. Purqueddu, De su tesoru de sa Sardigna, a c. di G. Marci (pp. CXXVI-277), che già ne aveva fornito una edizione nel 1999, sempre attenendosi, con minimi interventi, all’edizione del 1779. Il Purqueddu nacque a Senorbì nel 1743 e, gesuita, restò nella Compagnia fino sua alla soppressione, nel 1773, quando passò al clero secolare; visse a Torino per più di un anno, tra il 1775 e il 1776, intrecciando rapporti intellettuali di grande importanza e godendo del favore di Vittorio Amedeo III re di Sardegna. Rientrato in Sardegna fu prima parroco di Selegas, poi di Senorbì; nel 1779 appunto pubblicò, presso la Reale stamperia di Cagliari, il suo poemetto sulla coltivazione dei gelsi e l’allevamento dei bachi da seta, seguendo anche gli stimoli che, in questa direzione, provenivano dal governo piemontese. Si ritirò, inclinando alla vecchiaia, nel Collegio di S. Michele, a Cagliari, dove morì nel 1810. Il Purqueddu appare un esponente di quella borghesia che, in quegli anni, era un po’ cresciuta di numero e “che si era aperta alla cultura illuministica. Nato in un villaggio apparentemente tagliato fuori da ogni contatto con i grandi centri della cultura, gesuita e sacerdote, conduce – salvo la parentesi torinese – vita schiva e ritirata, eppure è capace di guardare al secolo dei lumi senza preoccupazioni o timori, di assumere quanto nei nuovi orientamenti filosofici è conciliabile con la condizione religiosa professata e utile per il progresso della patria, di confrontarsi con le pagine dell’Enciclopedia che, quando l’argomento lo richieda, viene citata nel Tesoro... E questo atteggiamento l’aspetto più interessante, e per certi versi singolare, del poema... che è composto da 199 ottave suddivise in tre canti, in sardo meridionale [campidanese], con traduzione italiana a fronte...” (p. LXXXV); l’opera è accompagnata da una dedica del direttore della Reale stamperia di Cagliari al Viceré di Sardegna, da un componimento poetico in latino di Francesco Carboni (tradotto da F.M. Aresu), indirizzato al medesimo direttore, da una Prefazione in settenari del Purqueddu, da una conclusiva Prosopopeia della Sardegna allusiva del terzo canto. La prefazione e ciascuno dei tre canti sono seguiti da ampie annotazioni esplicative, in sardo e in italiano, fuorché quelle relative al terzo canto che compaiono solo nella versione italiana per ragioni di spazio... e perché sono rivolte a un pubblico diverso da quello degli operatori. In effetti, queste annotazioni sono molto meno dirette a illustrare i problemi dell’allevamento dei bachi e della coltura dei gelsi e più attente a fornire un quadro d’assieme dell’economia sarda: l’autore presume quindi che i lettori ai quali intendeva rivolgersi, quelli che avevano bisogno dei ‘precetti’, fossero meno interessati a questa parte e di conseguenza non fornisce la versione sarda” (pp. LXXXVI-LXXXVII).
Spetta ancora a G. Marci l’edizione di Vincenzo Sulis, Autobiografia (pp. CLXXXVII-222; ma da p. LXXXVI si legge il robusto saggio di L. Ortu, Vincenzo Sulis e la Sardegna sabauda e da p. 185 il Glossario per c. di E. Frongia, centrato sui mots témoins dell’opera), lo straordinario racconto cioè della vita ‘spericolata’ di un avventuriero del ‘700, conservato nel ms. D IV C 24 della Biblioteca comunale di Sassari[11]. Il Sulis era nato a Cagliari nel 1758; prima giovane scapestrato, poi agiato notaio, in seguito comandante militare, venne infine, con l’accusa, non proprio provata, di lesa maestà, incarcerato per venti anni e esiliato per altri quattordici. Scrisse, tra il 1832 e il ‘33, probabilmente su invito di Pasquale Tola, accidentalmente approdato alla Maddalena dove il Sulis era in esilio, la storia della propria esistenza; l’esistenza di un uomo che si era trovato a vivere in momenti difficili per la propria terra (l’attacco francese e il triennio rivoluzionario), che, per la patria, aveva messo in gioco i propri beni e la vita: e che, per il timore dei potenti, per la perfidia dei nemici, per l’invidia dei parenti, dopo qualche non marginale successo, aveva perso. Uno degli aspetti più interessanti di questa opera, per nulla scontata, è il contrasto che emerge tra l’equilibrio della struttura e la magmaticità della lingua. L’Autobiografia è divisibile, con un certo agio, in due parti di pari estensione; la prima, dopo il prologo, si articola in “nascita e formazione..., la vita privata..., la difesa contro i francesi..., la cacciata dei piemontesi, gli anni del comando, l’arrivo del Re” (p. XLIII); la seconda in “la caduta..., il processo..., la condanna... il viaggio verso il carcere..., carcere ed evasione, la liberazione, la rivoluzione algherese, l’esilio” (pp. XLIII-XLIV). Ma questa sorta di “regolarità architettonica della narrazione deve essere considerata l’unica concessione che l’eversivo autore ritiene di poter fare allo schema culturale dominante. Per tutti gli altri aspetti, quelli stilistici e quelli linguistici, egli imbocca decisamente la strada dell’assoluta irregolarità, dando vita ad una ‘scrittura libertaria’... Come Casanova che scrive in francese per offrire la sua opera ad un pubblico più ampio, altrettanto il Sulis compie la scelta dell’italiano, lingua non interamente posseduta ma, per così dire al confine della competenza. La qual cosa, la povertà linguistica ma quindi anche l’altissimo margine di invenzione e di contaminazione fra lingue diverse (il sardo della quotidianità, lo spagnolo, il francese e quel tanto di latino che l’iniziale corso di studi, la Sacra scrittura e le formule giuridiche dell’uso notarile gli offrivano) apre la strada a un fuoco d’artificio di straordinario effetto” (p. XLVI). Non si può rinunciare a un piccolo esempio di questa tumultuante scrittura: “Ed eccomi posto al Comando d’una brigata di gente armata, potente, sregolata, disubidiente, incuregibbile, senza disciplina, senza educaz.e senza costumi, senza ragione, disubidienti a tutte le leggi Divine ed umane: ma come mai poter dominare e comandare tanta gente così scostumata, e baldanzosa per aver vinto, dicevano essi, nella guerra i Francesi, e nella rivoluzione i Piemontesi facendo sempre pompa della loro bravura e vittoria gli sembrava che nissuno li potesse frenare, e metter in regola, ed in sistema di disciplina e di ubbidienza...” (p. 59).
“Fippo operàiu ‘e luche soliana/ commo so’ oscuru artisanu de versos/ currende un’odissea ‘e rimas nobas/ che mi torret su sonu ‘e sas lapias/ ramenosas campanas/ brundas timballas e concas/ e sartàghines grecanas...”[12]. L’operàiu ‘e luche soliana (l’operaio di luce di sole) è Predu Mura, padre di Antonio, anch’egli scrittore, traduttore e poeta; Predu nacque nel 1906 in una famiglia di ramai e commercianti di rami, attività alla quale anch’egli si dedicò, seppur contro voglia, riservando il poco tempo libero alla lettura dei classici. La vocazione alla scrittura poetica divenne esplicita con il progetto concepito nel 1955 di pubblicare le sue liriche in sardo, appena prima che il premio Ozieri segnasse un momento di svolta, un rinnovato interesse per la poesia scritta in Sardegna. Mura cominciò a prendervi parte dal ‘57, ottenendo via via riconoscimenti sempre più significativi e diventando membro onorario del premio medesimo. Si spense nell’agosto del 1966.
Sas poesias d’una bida, a c. di N. Tanda, con la collaborazione di R. Lai (LXVIII-415) presenta l’edizione integrale dell’opera di Mura la cui lirica Fippo operàiu ‘e luche soliana è una sorta di “manifesto della nuova poesia in lingua sarda” (p. XXXVII), un’edizione che ci permette anche di osservare da vicino il lavoro del poeta e le linee di forza lungo le quali la sua poesia è cresciuta, imponendosi all’attenzione generale.
Insomma pluralità di testi – documentari e letterari – e di lingue – latino, sardo, nelle sue varietà, italiano, castigliano – convivono nei già numerosi volumi pubblicati dal Centro di studi filologici sardi. In primo luogo mi sembra che il Centro intenda costituire un corpus, una sorta di grande archivio che pare prendere ispirazione dalla tradizione erudita del Settecento, rinnovata però nelle tecniche e nei metodi. Se è infatti difficile immaginare che non debbano essere trattati con gli strumenti propri della filologia i testi più antichi dove si addensano questioni di paleografia, lingua, tradizione, è più sorprendente – piacevolmente sorprendente – vedere usati quei medesimi strumenti, ovviamente con i limiti indotti dalla specificità stessa degli oggetti di studio che non richiedono, almeno fino a ora, procedure particolarmente sofisticate, su testi più recenti. Non si tratta solo di pubblicare dei testi, bensì di pubblicarli nel modo che più da vicino rispecchi la volontà dell’autore, attribuendo, nello stesso tempo, all’editore la responsabilità che gli compete. Per esempio, la bilingue edizione del Cossu (italiano-sardo campidanese) è condotta sulla stampa comparsa nel 1788 e nel 1789 a Cagliari, per i tipi della Reale stamperia; nella versione italiana sono state integrate a testo, sempre rendendone conto, le correzioni presenti nell’Errata corrige della stampa cagliaritana; sono stati normalizzati in acuti gli accenti gravi di forme come acciocché, affinché, allorché ecc.; è stato eliminato l’accento su qui e qua[13];conservata l’alternanza maiuscolo/minuscolo dopo i segni di esclamazione e interrogazione, operati alcuni ammodernamenti interpuntori, peraltro indicati. Sono state anche mantenute molte oscillazioni della grafia (del tipo bacchi/bachi, cannicci/tannici; escita/uscita; selvatico/salvatico ecc.) che, a volte, paiono testimoniare l’incertezza tra forme sentite come più letterarie e altre percepite come più popolari; forse il problema avrebbe potuto essere risolto in modo univoco, qualora eventuali autografi del Cossu – che presumo non siano irreperibili – avessero testimoniato la presenza maggioritaria in modo assoluto di una forma contro l’altra. Nella versione sardo-campidanese sono state mantenute le oscillazioni, a partire da quelle, assai frequenti, tra consonanti scempie e geminate; è stato inoltre necessario intervenire “nei pochissimi casi in cui la 3 pl. indicativo pres. del verbo essiri: sunt, appariva come funt”; poiché i casi in cui il fenomeno si manifesta sono – come informa l’editore – pochissimi, non sarà affatto da pensare a una s lunga scambiata per f dall’editore medesimo, quanto piuttosto a un caratteristico errore di cassa (e, dunque, se unito a altri simili, interessante per conoscere e valutare la qualità delle maestranze della Reale stamperia) prodotto proprio dalla vicinanza strutturale tra s lunga e f Osservazioni di questo genere – in vero molto semplici – sono possibili solo perché l’esercizio filologico, inteso come metodo di lavoro che esplicita i processi seguiti nello stabilire il testo, anche se applicato a situazioni di non particolare difficoltà, ma comunque sempre bisognose di attenzione, ha fatto la sua parte, consentendo al lettore di verificare la fondatezza delle scelte dell’editore. In secondo luogo mi pare che il Centro abbia forte la volontà di evitare (e lo dimostrano bene le ampie introduzioni storiche premesse ai volumi) che si possa guardare alle edizioni di cui si è fatto carico, come a “una produzione cosiddetta regionale disgiunta dal ‘vasto moto della letteratura nazionale’. Anzi, per essere più precisi, ‘dal vasto moto delle letterature nazionali’ con cui la cultura sarda ha avuto non effimeri rapporti e senza conoscenza e comprensione dei quali non sarebbe possibile avere un’immagine compiuta della storia civile e letteraria della Sardegna”[14].
Insomma gli studiosi che al Centro fanno riferimento hanno cominciato a mettere (o a rimettere) in circolazione, oltre a testi già noti, altri ignoti, poco noti o dimenticati, vagliati con onesta e semplice filologia (che si avventura qualche volta anche sul terreno della filologia d’autore), ma, nello stesso tempo, hanno dimostrato che tenere l’occhio fisso ai testi non vuol dire dimenticare i produttori e i lettori di quei testi né gli spazi e i tempi in cui quei testi medesimi sono nati e si sono diffusi, dentro e fuori l’isola.
Certamente i volumi fino a ora pubblicati lasciano vedere, con un campione a sufficienza significativo, la specificità della letteratura sarda che è, in primo luogo, una specificità linguistica; come ha ricordato Nicola Tanda, “l’asse portante della cultura sarda è in definitiva... la lingua sarda”[15]; ma con il sardo hanno interagito il latino medioevale e umanistico “il catalano, il castigliano, l’italiano delle repubbliche marinare e degli ordini religiosi, l’italiano dei Piemontesi e l’italiano della Repubblica...”[16].Di certo in modo prevalente il sardo – che si spera sia rispettato nelle sue varietà[17], – e poi le altre lingue ricordate, tutte hanno contribuito – e alcune ancora contribuiscono – alla cultura e alla letteratura della Sardegna, entro il quadro complessivo della storia della Sardegna, della storia d’Italia, della storia dell’Europa e del Mediterraneo.