Fu grazie a De Gubernatis che la giovane Grazia, scrittrice autodidatta che si descriveva come una fanciulla dai caratteri «piccoli, sottili, nervosi e talvolta illeggibili », che parlava prevalentemente il dialetto e che non si era mai mossa da casa se non per andare a cavallo sui monti che circondano Nuoro («La mia vita è silenziosissima. Vivo in una casetta tranquilla perduta in una piccola città che è poi un grande villaggio»), iniziò la sua collaborazione con riviste come «Natura e arte» e la «Rivista delle tradizioni popolari italiane».
E' il 1892: la giovane ragazza e il maturo professore continueranno a scriversi per molti anni, fino a quando le parti si saranno invertite e lei sarà più famosa di lui. La Deledda mostrò subito la sua grande capacità di assorbire e trasmettere la sua passione per il folklore sardo, che viveva come un patrimonio identitario non solo locale, ma di valenza universale: usi, tradizioni e costumi che divennero popolari grazie al suo primo romanzo dal titolo «Fior di Sardegna» del 1892, insieme a tante novelle, articoli, saggi, riflessioni che portarono il continente antropologico barbaricino e dell'isolata Sardegna all'attenzione nazionale e internazionale.
Un humus letterario-antropologico plasmato in grande letteratura, in corposa poetica, che affascinò Capuana come D. H. Lawrence, che nella sua visita nell'isola volle seguire le orme della grande scrittrice nuorese, che vinse, seconda donna dopo Selma Lagerlöf, il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 e le cui opere, già alla fine dell'Ottocento, quando non aveva ancora trent'anni, erano tradotte in tutto il mondo occidentale. Si deve alla ricerca accurata e appassionata di Roberta Masini se le lettere della scrittrice sarda all'intellettuale di Torino vengono oggi pubblicate per le edizioni del Centro studi fi lologici sardi della Cuec di Cagliari. Si tratta di un centinaio di lettere in tutto che il professore, all'atto di consegnare le sue carte alla Biblioteca nazionale di Firenze (fondo «De Gubernatis»), aveva separato dalle altre con l'indicazione che fossero aperte e rese note soltanto cinquant'anni dopo la sua morte.
Insieme alle missive già note, vengono dunque pubblicate quelle inedite del periodo 1894-1899, così da comporre un quadro completo di questo rapporto umano, culturale, affettivo, personale di due anime «tanto diverse eppur tanto unite», che insieme tratteggiano anche una panoramica fi tta e ricca di spunti sul mondo letterario-artistico italiano di quegli anni.
Si nota, con evidenza, il corteggiamento epistolare che il cinquantenne studioso spinge in maniera evidente contro le resistenze della ventenne amica, «mirabile fanciulla» che voleva nutrirsi del sapere esperto dell'umanista senza cadere in trappole sentimentali, mantenendo il suo carattere di ragazza «spinosa» vestita di dolcezze segrete, più matura della sua età per le esperienze di vita agreste che la rendevano «umile e triste». Dentro al volume ci sono le lettere che De Gubernatis definisce «stupende, affettuose disinvolte, poetiche», introdotte da una poesia-omaggio che merita di essere letta come un unico canto per la giovane Grazia, che nella sensibile visione dello studioso diviene «Fata regina», «Luce Nuova» capace di miracoli d'amore e di regnare tra i Sardi come una novella Eleonora d'Arborea.
E come la sovrana arborense, la Deledda fa trasparire una passione missionaria per la sua Sardegna, capace di coinvolgere alcuni giornali locali e oltre cinquanta folkloristi di ogni area della regione, nell'intento di creare una raccolta organica etno-antropologica sulle tradizioni del territorio. Questo mentre viveva un amore tormentato con un insegnante, il Pirodda, che la sua famiglia non accettava per motivi di ceto. Le lettere della giovane Deledda confermano in nuce anche tutto il suo accattivante ardore poetico: «Ah, è una bellissima cosa, una sensazione vaporosamente felice... il silenzio dei miei vesperi, quando ho tutto il tempo di scrutare le lente sfumature del crepuscolo, le tinte delle nuvole iridescenti e tristi come i miei sogni», scriveva nel solco malinconico di quel vissuto che si sfarinava in versi che ancora oggi fanno vibrare e vibrano di profondi aneliti interiori. «Vorrei viver lassù, bianca eremita / de ‘Idea, de lo Spirito e de l'Arte, / studiando nel silenzio de l'oblio / i sogni umani... signora del paesaggio sconfinato, dormiente sotto i baci de la sera / oh, come troverei l'ignoto arcano / de l'Infinito, / o ne gemmea stella orientale / ne i profumi dei boschi a me salienti».
Pagine «luminose» di una «dolce sognatrice» destinata a diventare maestra di affabulazione, capace di usare la parola per scavare dentro l'animo più tormentato, per riflettere sul senso di pietas, sul sacro e sul respiro arcaico della Natura, sul senso eterno e infi nito del peccato e della redenzione.