In data 25 luglio 1970, alle ore 18, il giurista sardo Salvatore Satta dava avvio alla stesura manoscritta di un romanzo da collocare forse allo zenit della grande letteratura italiana del secondo Novecento: Il giorno del giudizio. Cinque anni dopo si spegneva a Roma, settantatreenne, senza vedere pubblicato il suo capo d’opera.
Sull’importanza del romanzo rimangono ormai pochi dubbi. Non che il coronamento degli addetti ai lavori sia pieno ed ecumenico – intorno al Giorno del giudizio si vocifera in patria e all’estero, i manuali ne portano notizie succinte, ancora – ma la canonizzazione ultima non dovrebbe mancare. Anche in forza della bella edizione critica che da poco ha proposto Giuseppe Marci, docente di Filologia Italiana all’Università di Cagliari, per i tipi della CUEC. La vicenda testuale che egli ricostruisce è ardua ma tutto sommato lineare: ci sarebbero in origine due agende, comprendenti l’una i XX capitoli della prima parte, l’altra 24 facciate molto eterogenee che avrebbero dovuto costituire la seconda parte. Da queste agende l’autore ricavò un dattiloscritto, che con alcune varianti fece da base per la vulgata a stampa: dapprima la padovana CEDAM, nel 1977, quindi l’edizione Adelphi, nel 1979, che portò il romanzo alla notorietà e al successo, infine la nuorese Ilisso, nel 1999. Scorrere un’e-dizione critica e farne oggetto di qualche riflessione a caldo può essere cosa per pochi, per specialisti o per affezionati già al corrente del valore davvero inconsueto del-l’opera; ma non è detto che anche in un sito/blog come I Miserabili sia possibile incontrare il lettore colto disposto a seguire le tracce di una scrittura in divenire, sofferta oltre misura, sempre vicina allo scacco, eppure di rara intensità espressiva.
Pensando a un uomo come Satta, conservatore in politica sino all’impopolari-tà, custode di una fede religiosa in nero, pericolosamente eterodossa, non può stupire una certa patina di arcaismo linguistico. Né può stupire una certa indecisione che egli documenta in queste pagine manoscritte, impegnate da un lato ad aggiornare, a normalizzare: notajo > notaio; alcun tempo > qualche tempo; dinanzi > davanti; mugulare (alla latina) > mugolare; ella > lei. Ma che dall’altro mostrano una indiscutibile tenacia preziosistica, giacché lascia nari per narici, la locuzione avverbiale di repente per all’improvviso, nepoti per nipoti, il letterario brage per brace; e ancora inserisce cachinni nel senso di risa sguaiate, l’accademico improntava al posto di un più consono impostava. A questo bilicare continuo tra cultismi, arcaismi e usi contemporanei, fa del resto da contrappeso la sicurezza con cui Satta interviene ripetutamente nel campo dei significati, limando e modificando parole fino a ottenere risultati più giusti e più icastici. È il caso delle tipologie abitative, da commisurare meglio alla povertà e all’arretratezza civile di una Nuoro inizi Novecento: palazzi > casoni; casette > dimore; casetta > capanna. O dei verbi di movimento, sostituiti in senso specificativo: andava > si trascinava; portavano > trascinavano; andavano > correvano; correre > trottare; camminava > zoppicava. Ma soprattutto interessanti appaiono i passaggi di indole metaforica, che Satta in pochi luoghi riduce alla base letterale, o depotenzia, temendo effetti di stucchevolezza retorica: pagina condita di notizie > pagina piena di notizie; il viso infiammato nell’ombra > il viso illuminato nell’ombra; incartapecoriti nelle loro avare giornate > avvolti nelle loro avare giornate. Ma il più delle volte costituisce ex-novo, oppure aggiusta, esalta in direzioni inusitate: trafficava > avvolto nei traffici; aveva creato intorno a sé un bozzolo > aveva filato intorno a sé un bozzolo; nel grande mare della vita > nell’astratto mare della vita; e così sino a intensificazioni di carattere espressionista: cadeva una pioggia fitta di sabbia > colava una pioggia fitta di sabbia; dominati dal pino solitario > vigilati dal pino solitario. Indicativi sono poi i casi in cui le correzioni introducono il condizionale composto in funzione anticipatoria, prolettica, sull’esempio aveva amato > avrebbe amato; tratto stilistico davvero dominante del romanzo, che Satta sistematizza consapevolmente nei manoscritti e che ha fatto sì che un critico come George Steiner interpretasse Il Giorno del giudizio alla stregua di un Cent’anni di solitudine sardo. Mentre con esito opposto sembrano attenuarsi quegli aspetti testuali, magari goffi o ridondanti, che tuttavia recavano impronta di un’oralità tramandata e leggendaria, di una scansione annalistica a sfondo popolaresco: Cominciò così quell’anno della siccità, come fu chiamato proverbialmente (espunto); Così finì l’anno che fu chiamato della confusione, tradotto in un lapidario: L’anno della confusione era terminato.
Più in generale il lavoro di Satta sembra orientarsi in due maniere differenti: l’una continuativa, l’altra differita. La prima può condurre a cancellazioni e riscritture, segnatamente ad inizio capitolo, come per il X e il XIX, o a rielaborazione di capitoli interi, di seguito, sull’agenda, come per il XIII. L’altra è una maniera più seducente, più insidiosa, che si può evincere dai foglietti che l’autore applica – o prepara per l’inserimento – in pagine di agenda lasciate in bianco: sorta di brani a completamento, o di espansione, destinati a un travaglio quasi interstiziale, che finisce col rendere arduo un criterio di datazione o di precedenza, come Marci prudentemente sottolinea. Perché le agende testimoniano sì di una elaborazione spedita, fervorosa, ma non priva di ripensamenti. Le righe espunte, nel transito dal manoscritto al dattiloscritto, ammontano a diverse centinaia e – bisogna osservare – quasi sempre sono meritevoli di espunzione, riguardando per lo più tratteggi poco incisivi o fatti o figure accessorie. Senonché non si può parlare di una semplice attitudine al levare, dal momento che Satta di ogni motivo deposto sulla pagina conserva memoria e in più di un caso lo ridispone altrove, con altro ordine e misura. Non proprio un levare, dunque, quanto un ridurre e riutilizzare: e a buon diritto Marci evoca la figura dell’artigiano, che ha rispetto per i materiali, non ne tollera lo spreco, se non in casi altamente strategici, da cui dipende l’incisività essenzialistica del manufatto.
Chi poi cercasse in questa edizione critica colpi a sorpresa ne troverà per lo meno due: l’inversione dei capitoli XIX-XX, sempre nel passaggio dalle agende al dattiloscritto; e la decurtazione di ampia parte della sezione seconda, ridotta nei volumi a stampa alla misura di una sola pagina («perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio»: FINE). In quanto al primo mutamento, avviene sul dattiloscritto e non c’è certezza che sia ad opera dell’autore, anche se appare molto probabile. Il capitolo XX vergato dalla mano del giurista nuorese terminava con il richiamo a Don Sebastiano che, coinvolto nell’atroce omicidio commesso da Nanneddu Titùle, risultava ancora una volta preservato dai guai grazie all’intervento del fedele Poddanzu. Con l’inversione, il testo sembra guadagnare sotto il profilo romanzesco, deponendo qualcosa in termini di linearità memorialistica: l’ultimo capitolo della prima parte (originariamente il XIX) apre con la ripresa a distanza della fuga disperata e allucinatoria di Gonaria, e chiude con analoga cupezza fantasmagorica fissando l’immagine di Ludovico che nottetempo esce di casa, si accosta al portone dell’eterna fidanzata Celestina Mannu, e si ritira tristemente senza bussare. In tal modo, l’aspetto lugubre e catastrofico del romanzo sembra accentuato: non un Don Sebastiano al sicuro da complicità criminali e dalle mene di Don Ricciotti viene a suggellare la prima parte, ma l’impotenza struggente di Ludovico, destinato per sommo paradosso a ereditare il principio di autorità entro la famiglia Sanna Carboni.
In quanto alla chiusa – a quell’unica pagina che con provocatoria sproporzione viene a costituire tutta la II parte del romanzo –, il mistero filologico è ancora più fitto. L’agenda (la seconda agenda) riporta 24 facciate, di materia diversa, in larga misura cancellate, ma il confronto con il dattiloscritto non è possibile, giacché proprio questa porzione testuale è andata perduta. A lungo si è voluto annoverare Il giorno del giudizio tra i romanzi inconclusi, interrotti per inanità o per il sopraggiungere della morte: le utime righe presenti nelle versioni a stampa promettevano e promettono d’altronde uno sviluppo: «bisogna che ci sia uno che ti raccolga, che ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare…». Ora però si presenta un fatto nuovo. Altre pagine che seguivano – per lo più ulteriori rispetto alla cronologia della prima parte: l’atteggiamento di Donna Vincenza di fronte a Don Sebastiano vecchio, il caffè Tettamanzi negli anni ’20, l’incipiente avvento del fascismo – sono state cancellate dall’autore e nel complesso escluse dalla tradizione a stampa. In questo caso non si tratta di pagine al tutto prive di forza e di significato (c’è l’immagine delle due colombe bianche che tubano, suscitando l’inquietudine superstiziosa di Donna Vincenza; c’è la notizia del rapporto amicale che il piccolo Sebastiano stringe con la povera Peppeddedda); ma tutto ciò non è nulla rispetto alla potenza catastrofica dell’unica pagina superstite. Satta ha inteso bene che dopo quelle righe non sarebbe più stato possibile alcun apice espressivo. Così il testo è rimasto drasticamente sbilanciato, monco, ma con intenzione. Il «piccolo dio», il «ridicolo dio» che si è preso l’onere di ridestare narrativamente e di giudicare la misera Nuoro di inizi secolo sta per essere a sua volta giudicato: e in questa reciprocità – che sta tra il metaletterario e il metafisico – il romanzo si incide nella memoria del lettore come un cuneo.
Bruno Pischedda