Il volume Barbaricinorum libelli di Giovanni Arca arricchisce la collana Scrittori Sardi del Centro di Studi Filologici Sardi. Un testo particolare nei contenuti, per la materia trattata e per l’originalità con cui viene analizzata.
I due saggi introduttivi di Raimondo Turtas, studioso di Storia della Chiesa, e di Maria Teresa Laneri, ricercatrice di Letteratura latina e umanistica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, oltre a fornire delle preziose indicazioni per tracciare l’incerto ritratto biografico dell’Autore, di cui non si hanno dati assodati se non che ebbe un’intensa attività letteraria e che era originario di Bitti, offrono un prezioso contributo per l’accurata descrizione del panorama storico e letterario della seconda metà del XVI secolo, del ruolo che ebbe la Compagnia di Gesù nell’ordinazione delle scuole in Sardegna, delle controversie e ostilità che derivarono da una competizione tra Sassari e Cagliari per l’istituzione dei collegi, e, naturalmente, della genesi di questa opera.
Il volume Barbaricinorum libelli è dedicato all’edizione di un autografo di Giovanni Arca contenente due opuscoli: il De Barbaricinorum origine e il De Barbaricinorum fortitudine. L’autore in questione conosceva sicuramente il Fara di De rebus Sardois le cui prime pagine sono dedicate ai più antichi abitatori della Sardegna, ma, a differenza del Fara, Arca rivolge l’attenzione ai Barbaricini celebrandone la superiorità e la nobile origine troiana, attraverso un’abile ricostruzione su un “fitto reticolo di citazioni” come afferma la stessa curatrice. Numerosi i richiami ad autori classici, ora virgolettati ora parafrasati: così, di volta in volta, Arca cita Livio, Plinio il Vecchio, Sallustio, Diodoro Siculo, Pomponio Mela, Simplicio, e altri ancora, menzionati per dare testimonianza o conferma alle proprie tesi e a sostegno del suo obiettivo: creare un’epopea dei Barbaricini. Per raggiungere lo scopo non esita a falsificare le fonti classiche, modificandole e interpretandole in modo da far apparire sempre e comunque i vinti (i Barbaricini) come vincitori. Illuminante a tal proposito l’esempio riportato da Raimondo Turtas nella sua introduzione: la missiva che, nel racconto di Livio, il pretore Tito Ebuzio aveva mandato al senato romano tramite il figlio per una richiesta di rinforzi per l’esercito annientato dalla pestilenza “diventava nella penna di Arca, una lettera […] concitata e drammatica, con una scelta di termini che denotavano una situazione disperata per l’esercito romano in Sardegna”.
Non mancano note storiche prive di ogni fondamento, ricostruzioni ad arte finalizzate alla celebrazione del suo popolo, a costo di stravolgere i contenuti delle fonti che probabilmente non aveva consultato personalmente (almeno non tutte). Un tentativo ingenuo di rendere protagonista un popolo attribuendogli “una nobile origine e una storia gloriosa” come asserisce la Laneri. Ai due curatori certamente il merito di un’attenta analisi storica e letteraria dell’opera, a Giovanni Arca il pregio di un’originalità nel mettere insieme, come in un falso patchwork letterario, tante fonti, stravolgendone i contenuti, nell’illusione che il proprio genio creativo potesse dare sorte diversa alla sua gente; un vano tentativo di rivalsa che, però, ha dovuto fare i conti con la Storia.
Gisa Dessì