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Elogio della sardità
Se c’è un elemento che caratterizza la Sardegna, la sua storia e la produzione dei suoi scrittori, questo consiste nell’avere i Sardi frequentato popoli, culture e lingue diverse e nell’avere elaborato una propria espressione linguistica in presenza di tutte le lingue del mondo, nel confronto con tutte le genti con le quali, per le ragioni della navigazione, del commercio e della guerra, hanno avuto motivo di incontro.
È, quello del sardo e del suo impiego nella scrittura, un problema omplesso perché quell’antica lingua, in apparenza poco presente nella tradizione scritta, è però sostenuta dal fecondo rapporto ra oralità e scrittura e dall’abitudine al confronto con le lingue delle culture dominanti. Si spiega così il fenomeno rappresentato dagli crittori che, nel Novecento, hanno voluto impiegare, in prosa e in poesia, le diverse varietà del sardo e forme linguistiche ancor più eticce nella composizione delle loro opere.
Nell’Éloge de la créolité Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant affermano di aver avviato “la minutieuse exploration de nous-mêmes”: uno scavo archeologico che non vuol perdere nulla di quanto è stato sepolto dal tormentato scorrere della loro storia.
Anche nel nostro caso lo scavo deve ricostruire la stratificazione interiore de nous-mêmes, della nostra cultura, dei pensieri e della
psicologia.
Dobbiamo ripensare una vicenda millenaria, quella della Sardegna, ricollocandovi al centro il soggetto etnostorico che ne è stato protagonista ma che, nei processi della ricostruzione storica e storico letteraria, è quasi dimenticato. Abbiamo, infatti, un numero variabile di Sardegne (quella fenicio-punica, quella romana, quella catalano-aragonese, quella sabauda): raramente viene studiata e descritta la dimensione unitaria data alla storia sarda dal popolo che nell’Isola ha abitato per millenni, dal modo in cui quel popolo concepisce se stesso e il luogo, dalle sue visioni del mondo.
Una presenza, quella dei Sardi in uno stesso spazio geografico fortemente identificato dalla sua fisionomia insulare, della quale molto sappiamo e altrettanto ignoriamo. E quel che ignoriamo sembra autorizzarci a sottovalutare anche quel che sappiamo. Mentre invece quel che sappiamo ci obbliga a prestare grande attenzione e considerare in certa misura presente anche quello che, sul piano documentale, è assente.
Tanto più quando ci muoviamo nell’ambito della comunicazione letteraria e quindi nella sfera della percezione e della rappresentazione della realtà, ovverosia all’interno della convenzione che lega l’autore al lettore.
In primo luogo dobbiamo tener presente che lettori e autori sardi condividono una concezione fondata, come spiega lo scrittore Giuseppe DessÌ, su un’idea di tempo differente da quello storico europeo: immobile, “un eterno presente” dove nulla si perde e tutto conserva attualità.
Ritroviamo nella letteratura la memoria delle ere geologiche nelle quali è stata plasmata la pietra che ancora oggi ha tanta importanza nell’immaginario collettivo dei Sardi, così come il ricordo delle navigazioni e del commercio, del primo chicco seminato, del primo vino spremuto dall’uva quando ancora dovevano trascorrere molti anni per arrivare alla civiltà nuragica.
Come potrebbe essere diversamente con migliaia di monumenti, i nuraghi, vigilanti non su un possibile nemico in arrivo ma piuttosto sul pericolo di dimenticare, di perdere la memoria di sé? Basterà leggere i romanzi di Grazia Deledda per verificare gli esiti di tale vigilanza, l’imprinting che ne deriva e che anche si esprime nella valenza semantica positiva che accompagna gli aggettivi antico, primitivo, preistorico, a definire le qualità di un tempo lontano, un tempo perduto, uno spazio e una condizione dai quali il popolo sardo è stato strappato e verso cui aspira a tornare.
Allo stesso modo dobbiamo prestare attenzione ai rapporti che i Sardi hanno intrecciato con la cultura latina, prima, con l’italiana e l’ispanica, poi.
Sotto un certo profilo possiamo dire che si è trattato di un privilegio, della possibilità di osservare dall’interno universi culturali di prestigio; di sentirli come propri.
I Sardi hanno sempre avuto relazioni con la penisola italiana. Navigavano nel Mediterraneo migliaia di anni prima di Cristo, scambiavano ossidiana con i liguri, avviavano un rapporto che si è mantenuto e si è rafforzato con i traffici delle merci e la consuetudine linguistica del periodo medioevale. Genova e Pisa come porta verso quella che sarà l’Italia, verso la lingua, la cultura e la letteratura italiane: una libera scelta riconfermata lungo tutta l’età spagnola che ci aiuta a comprendere i processi di italianizzazione avviati, secoli dopo, nell’unione con il Piemonte. Non fu una rinuncia ai tratti fondanti la propria identità, ma piuttosto l’acquisizione di ulteriori mezzi atti ad esprimerne l’essenza.
Dalla prefazione