Mi risvegliai in una stanza che dopo i tanti rifugi di fortuna frequentati al tempo della clandestinità - soffitte, case cantoniere, garage, depositi d'attrezzi agricoli, retrobottega, casún del Delta - mi appariva un luogo finto, strascico di sogno, come se per levitazione fossi trapassato in un film di Lubitsch: quel tetto a baldacchino, tendaggi di velluto scarlatto, paralumi lambiccati, lo scrittoio rococò. Stavo al Pariz, l'albergo del Partito per gli ospiti stranieri, e una confortevole sistemazione dava scorrevolezza a pensieri lievi.
Ero arrivato la sera prima in auto. Al passaggio di frontiera di Kleinhangsdorf avevo trovato ad aspettarmi un biondino d'espressione ilare, Aristide Baraldi, ferrarese di Borgo San Lucia, ciarliero, una luce arguta negli occhi limpidi. Era stato lui a predispormi al buon umore dicendomi della sua esperienza d'esiliato, una vita non semplicemente cambiata, del tutto rovesciata, da rintanato per sfuggire all'arresto a gioiosamente libero, dall'avvilimento per l'inattività forzata a un ruolo appagante, redattore del quindicinale di lingua italiana «Democrazia popolare», da un paese dove il popolo è sotto il tacco dell'agrario e del pescecane a un paese dove il popolo guida il processo della propria liberazione.