Del giorno in cui venni al mondo ricordo ancora gli odori, e il suono di una campana che pigra e indolente annunciava l'inizio della novena natalizia nell'ora del vespro. L'aria era sazia del profumo aspro dei mandarini e mia nonna Frantzisca, mentre mi sciacquava in acqua di mirto, recitava pezzi di rosario e sussurrava antiche filastrocche.
Era il 23 dicembre del 1948, fuori nevicava e le lampade a pera dai loro piatti di porcellana sputavano a intermittenza coni di luce dorata sulla neve. I bambini per strada si rincorrevano masticando pane crasau e sogni, e ogni tanto, sorridendo, cecavan odi acchiappare con le mani quei fiocchi di neve che nascondevano il nulla.
Mio nonno Bantine, che se ne stava coccoloni senza muoversi appoggiato al muro a fianco della piattaia, si avvicinò per farmi una carezza e osservarmi nell'incerto e tremulo chiarore delle steariche. Mi sfiorò la fronte con la sua mano calda e rasposa, e bisbigliò: - Bene vénniu Ninè e bona vortuna àppasa!
Ninè, così avevano deciso di chiamarmi, in onore di un raccoglitore di ferro vecchio che suonava meravigliosamente l'organetto e di nome faceva Nino, e di cognome Corevonu. Quella notte la luna si presentò in ritardo, e gli abitanti di Oropische di fronte ai caminetti, si raccontavano storie di spettri e di santi e cuocevano patate e cipolle sotto la cenere ardente dei fochili. Mia madre mi allattava e piangeva, e mio padre Mundicu il carbonaio, noto Thitthone, avvolto nel suo cappotto di orbace, faceva il giro delle bettole per festeggiare la nascita del suo primo figlio.