Nuoro, Il Maestrale, 2001
Gli arcipelaghi
Maria Giacobbe
Dopo tanto spazio di mare, così azzurro che le creste circolari delle onde vi spiccavano con la ferma grazia di atolli, apparvero i contorni dell'isola, rosei come una cicatrice recente, bordati d'una frangia di spuma. Deserti, sembravano vergini, inviolati. Di nuovo, come ogni volta, lo colpì il carattere animale – non vegetale, non minerale – di quelle coste, che continuava nella solida, terrosa groppa d'elefante, che s'ingrandiva sotto l'aereo, mentre l'azzurro del mare diventava una lama sempre più sottile, lontana. Lasciando Milano, avevano sorvolato città, fiumi, campi coltivati, boschi, strade vive di traffico. Un paesaggio europeo. Una terra abitata da uomini. Uomini d'oggi. L'isola sulla quale ora volavano era la groppa terrosa d'un mastodonte morto da millenni. Setole rade e aride orlavano le screpolature e i graffi incisi sul fango asciutto. Come altre volte, vedendola dall'alto, si sorprese a ricordare quasi incredulo che quella terra, quel grumo di fango rappreso, aveva per tanti anni rappresentato il suo paradiso perduto.