Palermo, Sellerio, 1998
Apologo del giudice bandito
Sergio Atzeni
Una mattina di primavera dell'anno del 1492, in un podere di campagna dalle parti di Sarasgiu, Lilliccu solleva la schiena. Ha zappato dalla prima luce e non ha visto che terra dura aprirsi, avara, neanche il sudore l'ammorbidiva. Dolgono le costole e le reni. – Lavoro maledetto – sussurra. Chiude gli occhi e poggia la mano destra sul manico della zappa. Sudore denso, viscido, cola sulle palpebre. Con lentezza rassegnata afferra un lembo della camicia terrosa e lo sfrega sulla faccia coperta di mosche grasse che succhiano e si lasciano schiacciare, sazie e torpide, beate. Lilliccu apre gli occhi. L'aria è liquida, i contorni delle cose bisce in fuga, miraggi, barbagli luccicanti. Laggiù, dove la pianura si mescola col cielo, qualcosa si muove. Lilliccu prega sia un inganno della luce. Porta la sinbistra sugli occhi, per vedere meglio: una nuvola gialla avanza bassa sulla pianura. La zappa cade senza rumore.