Sassari, Stamperia Artistica, 1984
La tanca fiorita
Giovanni Antonio Mura
L’ultimo giorno di carnevale, Nanni Selis, secondo ed ultimo figlio di Ziu Damianu Selis, si ammalò.
Nella piazza si era ballato tutto il pomeriggio.
Le ragazze di Birchiri avevano formato una grande catena con le braccia, tenendosi per mano, attorno ad un olmo secolare, ed i giovanotti avevano cantato fino a perderci la voce:
A ferru frittu ne a ferru frittu,
A ferru frittu ne a ferru frì!...
Bim-ba-rambòi-bimba-rambà!
Cagnolinu, con la lunga berretta arrotolata sul capo, entrava ed usciva sotto l’arco delle braccia, tenendo in mano una bottiglia colma di vino, e offriva da bere ai cantori.
Nicola Sale dava il tono e la cadenza ritmica al canto con un suo strano modo di vociare e di ululare.
E tutto il coro dei cantori lo seguiva con un accordo selvaggio.
Cagnolinu faceva il tippiri: una specie di quinta ch’era un guaito di cane.
Nicola si arrossava nel viso e si voltava a destra e a sinistra, seguendo il moto circolare del ballo. Voltandosi, mostrava il bianco degli occhiacci:
A ferru frittu ne a ferru frì!...
Il coro s’inebbriava di quel canto; e il movimento ondulatorio, spasmodico, saltellante del ballo diventava cadenzato, quando il verso si troncava, con uno scoppio sonoro, nella gola dei cantori. E, subito dopo, esso finiva in una corsa pazza, nella quale le bende delle donne e le berrette degli uomini mettevano una nota di colore primitivo, come in una fantasia africana.
Michel’Arras era andata al ballo: ed era con lei Nanni Selis, studente di leggi, suo figlio di latte.
Quando ella fu nel piazzale, le gambe le si attorcigliarono subito come due ferri arroventati. La passione ebbra del canto e la vertigine della corsa le erano salite al cervello come il vino della vigna Selis, a lei familiare.
Piantò in asso Nanni, che s’era messo a discorrere con Pietro Ledda, suo compagno di Università, e, in un attimo, si trovò inghiottita dalla moltitudine che saltava.
Nanni era uscito per far piacere a lei ed anche per distrarsi un pochino. Era pallido e stanco; ma la struttura massiccia delle spalle denotava in lui il discendente sano di una famiglia barbarica e forte. Egli portava nella vita la primavera selvaggia dell’uomo indomito ed incorrotto.
La sua casa antica, cinta da un rustico cortile, dove un caprifico distendeva i rami e le radici sui muri screpolati, era sempre stata la palestra misteriosa nella quale egli, col forte ingegno, scrutava i problemi ed analizzava le cause di decadenza della sua terra.
Nella piazza si era ballato tutto il pomeriggio.
Le ragazze di Birchiri avevano formato una grande catena con le braccia, tenendosi per mano, attorno ad un olmo secolare, ed i giovanotti avevano cantato fino a perderci la voce:
A ferru frittu ne a ferru frittu,
A ferru frittu ne a ferru frì!...
Bim-ba-rambòi-bimba-rambà!
Cagnolinu, con la lunga berretta arrotolata sul capo, entrava ed usciva sotto l’arco delle braccia, tenendo in mano una bottiglia colma di vino, e offriva da bere ai cantori.
Nicola Sale dava il tono e la cadenza ritmica al canto con un suo strano modo di vociare e di ululare.
E tutto il coro dei cantori lo seguiva con un accordo selvaggio.
Cagnolinu faceva il tippiri: una specie di quinta ch’era un guaito di cane.
Nicola si arrossava nel viso e si voltava a destra e a sinistra, seguendo il moto circolare del ballo. Voltandosi, mostrava il bianco degli occhiacci:
A ferru frittu ne a ferru frì!...
Il coro s’inebbriava di quel canto; e il movimento ondulatorio, spasmodico, saltellante del ballo diventava cadenzato, quando il verso si troncava, con uno scoppio sonoro, nella gola dei cantori. E, subito dopo, esso finiva in una corsa pazza, nella quale le bende delle donne e le berrette degli uomini mettevano una nota di colore primitivo, come in una fantasia africana.
Michel’Arras era andata al ballo: ed era con lei Nanni Selis, studente di leggi, suo figlio di latte.
Quando ella fu nel piazzale, le gambe le si attorcigliarono subito come due ferri arroventati. La passione ebbra del canto e la vertigine della corsa le erano salite al cervello come il vino della vigna Selis, a lei familiare.
Piantò in asso Nanni, che s’era messo a discorrere con Pietro Ledda, suo compagno di Università, e, in un attimo, si trovò inghiottita dalla moltitudine che saltava.
Nanni era uscito per far piacere a lei ed anche per distrarsi un pochino. Era pallido e stanco; ma la struttura massiccia delle spalle denotava in lui il discendente sano di una famiglia barbarica e forte. Egli portava nella vita la primavera selvaggia dell’uomo indomito ed incorrotto.
La sua casa antica, cinta da un rustico cortile, dove un caprifico distendeva i rami e le radici sui muri screpolati, era sempre stata la palestra misteriosa nella quale egli, col forte ingegno, scrutava i problemi ed analizzava le cause di decadenza della sua terra.