Nuoro, Il Maestrale, 2004
Il postino di Piracherfa
Salvatore Niffoi
Il latrare dei cani si spalmava sui vetri delle case di Piracherfa come una maschera lattosa e urticante. Il vento, che spazzava per le strade le ultime foglie ingiallite perse dai pergolati, trasportava lamenti di anime morte sino alla stanza da letto di Melampu Camundu. Bel regalo per il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Bel regalo quelle voci che tornavano a galla da un passato antico e peloso, per ricordargli che certe visioni notturne si perdono nella notte dei tempi, quando ancora non esistevano le croci, e il fuoco lo regalavano solo le nuvole imbizzarrite come cavalli selvaggi.
La sveglia fosforescente, che ticchettava sul comodino sverniciato, segnava le cinque meno un quarto. Quando allungò la mano sulla spalliera per trovare l’interruttore, un enorme rosario a chicchi grossi appeso sulla parete stinta si sgranò sul pavimento impiastrellato a rombi grigi e vinacciosi. Stiracchiandosi le ossa, chiuse i pugni e allungò le mani verso l’alto per inghiottire la prima bestemmia della giornata.
Posò i piedi su una pelle di caprone malconciata e orlata da un bordicino turchese. Si liberò delle doppie calze da notte, e con l’indice asportò dalle dita i grumetti maleodoranti che ogni giorno vi si depositavano. Ogni tanto si avvicinava il dito al naso e inspirava avidamente quel profumo che gli sembrava avesse l’acido amarognolo del pesco in fiore. Infilò la mano in un bicchiere d’acqua torbida posato sul comò, per prelevare una protesi luminosa e tagliente come una falce. Si osservò allo specchio, infilando la lingua in un portale che andava da canino a canino. Continuava a perdere denti e capelli. La vecchiaia lo rincorreva e lo raggiungeva nei giorni in cui si alzava intristito dalla pesantezza di un bilancio esistenziale che tirava la stajera sempre dalla parte della sofferenza. Fece una smorfia propiziatoria e s’infilò in bocca quella specie di carrettino in miniatura.
La sveglia fosforescente, che ticchettava sul comodino sverniciato, segnava le cinque meno un quarto. Quando allungò la mano sulla spalliera per trovare l’interruttore, un enorme rosario a chicchi grossi appeso sulla parete stinta si sgranò sul pavimento impiastrellato a rombi grigi e vinacciosi. Stiracchiandosi le ossa, chiuse i pugni e allungò le mani verso l’alto per inghiottire la prima bestemmia della giornata.
Posò i piedi su una pelle di caprone malconciata e orlata da un bordicino turchese. Si liberò delle doppie calze da notte, e con l’indice asportò dalle dita i grumetti maleodoranti che ogni giorno vi si depositavano. Ogni tanto si avvicinava il dito al naso e inspirava avidamente quel profumo che gli sembrava avesse l’acido amarognolo del pesco in fiore. Infilò la mano in un bicchiere d’acqua torbida posato sul comò, per prelevare una protesi luminosa e tagliente come una falce. Si osservò allo specchio, infilando la lingua in un portale che andava da canino a canino. Continuava a perdere denti e capelli. La vecchiaia lo rincorreva e lo raggiungeva nei giorni in cui si alzava intristito dalla pesantezza di un bilancio esistenziale che tirava la stajera sempre dalla parte della sofferenza. Fece una smorfia propiziatoria e s’infilò in bocca quella specie di carrettino in miniatura.