Torino, Giulio Einaudi Editore, 1989
Un morso di formica
Salvatore Mannuzzu
Forse qualcuno non crede che Sergio è mio nipote: questo rapporto di parentela talvolta si finge per nasconderne altri e il ragazzo risulta, come dire, un po’ chiacchierato; un poco, non tanto. Al Residence, dove mi capita di scendere per colazione o per cena, oppure giù nella spiaggetta e nel piccolo molo di Tamerici, c’è chi mi domanda se sono il padre e come rispondo di no («È mio nipote, non ho figli») magari nasce l’equivoco, tra coloro che come me sono qui di passaggio.
Non mi pesa, persino arriva un po’ a divertirmi. Stiamo noi due soli, in questa casa ai margini d’una lottizzazione il cui terreno si è sempre chiamato Tamerici. Apparteneva tutto alla famiglia di Carla, la madre di Sergio: e questa loro casa esisteva già quando agli inizi degli anni ’60 lo vendettero. Per un prezzo consistente; ma è gente che ha denaro da generazioni. Immagino che allora i luoghi fossero diversi, intatti: di tanto in tanto qualcuno li ricorda; era stata appena aperta la strada in basso fra la sabbia bianca delle dune, gli insediamenti dovevano seguire in epoche più o meno successive. Mio fratello Niso era già morto. Carla doveva sopravvivergli, faccio i conti, circa una dozzina d’anni: Sergio era un adolescente sparuto quando le capitò l’incidente, proprio da queste parti.
Venni nell’isola per il funerale. Dopo la morte di Niso c’ero stato una sola volta, un Natale; per ritornarci poi adesso, questa estate. Capisco che avrei dovuto prendere con me il ragazzo, rimasto, così, orfano: sono il suo parente più vicino, Carla non aveva fratelli, e Niso me solo. Ma per come è Miriam – stavamo già insieme – non era possibile. Può darsi me ne rimanga un senso di colpa: di Sergio si occuparono i cugini della madre, con i quali del resto aveva un rapporto molto stretto, mentre me non mi conosceva neppure di vista o quasi. Io stesso avevo faticato a ritrovare nel ragazzetto magro e silenzioso, sotto il carico che pareva sopportare distrattamente del suo nuovo lutto, il bambino di quel Natale.
Così adesso è più o meno un estraneo per me il giovane uomo con il quale trascorro una vacanza; come mi è estranea la casa che momentaneamente dividiamo: e che invece – se non è un’impressione sbagliata – è quella più sua, più dell’altra che abita in città. Io ci sto bene, e lui mi è simpatico: non ingombrante, naturalmente solitario, arriva di rado con qualche coetaneo (o coetanea) altrettanto poco chiassoso, o vengono a trovarlo, mai più di due o tre; non si capisce che facciano nella sua camera o su in terrazzo, a volte ne vedo penzolare le gambe nude dal parapetto.
Non mi pesa, persino arriva un po’ a divertirmi. Stiamo noi due soli, in questa casa ai margini d’una lottizzazione il cui terreno si è sempre chiamato Tamerici. Apparteneva tutto alla famiglia di Carla, la madre di Sergio: e questa loro casa esisteva già quando agli inizi degli anni ’60 lo vendettero. Per un prezzo consistente; ma è gente che ha denaro da generazioni. Immagino che allora i luoghi fossero diversi, intatti: di tanto in tanto qualcuno li ricorda; era stata appena aperta la strada in basso fra la sabbia bianca delle dune, gli insediamenti dovevano seguire in epoche più o meno successive. Mio fratello Niso era già morto. Carla doveva sopravvivergli, faccio i conti, circa una dozzina d’anni: Sergio era un adolescente sparuto quando le capitò l’incidente, proprio da queste parti.
Venni nell’isola per il funerale. Dopo la morte di Niso c’ero stato una sola volta, un Natale; per ritornarci poi adesso, questa estate. Capisco che avrei dovuto prendere con me il ragazzo, rimasto, così, orfano: sono il suo parente più vicino, Carla non aveva fratelli, e Niso me solo. Ma per come è Miriam – stavamo già insieme – non era possibile. Può darsi me ne rimanga un senso di colpa: di Sergio si occuparono i cugini della madre, con i quali del resto aveva un rapporto molto stretto, mentre me non mi conosceva neppure di vista o quasi. Io stesso avevo faticato a ritrovare nel ragazzetto magro e silenzioso, sotto il carico che pareva sopportare distrattamente del suo nuovo lutto, il bambino di quel Natale.
Così adesso è più o meno un estraneo per me il giovane uomo con il quale trascorro una vacanza; come mi è estranea la casa che momentaneamente dividiamo: e che invece – se non è un’impressione sbagliata – è quella più sua, più dell’altra che abita in città. Io ci sto bene, e lui mi è simpatico: non ingombrante, naturalmente solitario, arriva di rado con qualche coetaneo (o coetanea) altrettanto poco chiassoso, o vengono a trovarlo, mai più di due o tre; non si capisce che facciano nella sua camera o su in terrazzo, a volte ne vedo penzolare le gambe nude dal parapetto.