Torino, Giulio Einaudi Editore, 2000
Il catalogo
Salvatore Mannuzzu
Corpo presente.
Sembrava Geppetto nella pancia della balena. Sempre che Geppetto, là dentro, portasse un basco. Questo suo era d’un colore indefinibile, virante forse al viola: e lo teneva calcato a sghimbescio sino a coprire parte della fronte e quasi un occhio, su un lato; dall’altro sporgevano dei capelli bianchi e fittamente ricciuti, come sporchi. Sbuffò, poi sospirò, nel sedersi, chiedendo permesso. Glielo accordai malvolentieri: ma non c’erano altri tavolini liberi, nel salone del bar. Intanto venivano i rumori della nave in partenza.
«Avremo un mare buonissimo, - m’informò. – Però a me importa poco. Anzi, - rise, - quando si balla mi diverto». Continuai, senza rispondere, a mangiare i miei tramezzini, che parevano fatti di plastica, a bere la mia birra, dal sapore di fieno stantio: non ero in animo di reggere una conversazione. Tanto meno questa, con un simile personaggio. Avrei voluto starmene da parte: pensare solo a quanto mi capitava, capire se ciò che provavo era una specie di felicità o una specie di disperazione.
«Non prendo apposta la cuccetta, - ridacchiò ancora: - Mai». Appena seduto aveva cominciato ad asciugarsi il viso dal sudore, con una salvietta di carta colorata; benché fuori, da dove veniva, facesse freddo, sotto la pioggia minuta nella sera di dicembre. Neppure io avevo una cabina, né una cuccetta, non m’era riuscito di trovarne: perduto l’aereo, ero salito sulla nave all’ultimo momento, per ripiego. «Chiedo scusa», il mio occasionale compagno ripeté; e si chinò a rovistare dentro una enorme borsa, o sacca, tenuta sul pavimento fra i piedi. Ne trasse una bottiglia d’acqua, che poggiò sul tavolino; poi del pane, che sistemò pure lì accanto; infine un gran pezzo di formaggio: e, tagliandone man mano delle fette sottili con un temperino, si mise anche lui a mangiare. Distolsi lo sguardo, verso il televisore che trasmetteva – erano ormai giorni e giorni – uno dei soliti programmi sulla morte del papa. Intanto il Geppetto beveva dalla bottiglia, direttamente, fra un boccone e l’altro, commentando: «A me piacciono le cose genuine. E sono peggio d’un topo: ormai mi nutro solo di formaggio. Del resto il calcio fa bene alla salute».
Tenevo, quasi con ostentazione, il viso rivolto al televisore: ecco il pontefice dodicenne, in un’antica fotografia sbiadita, sullo sfondo d’una musica solenne e mortuaria.
Sembrava Geppetto nella pancia della balena. Sempre che Geppetto, là dentro, portasse un basco. Questo suo era d’un colore indefinibile, virante forse al viola: e lo teneva calcato a sghimbescio sino a coprire parte della fronte e quasi un occhio, su un lato; dall’altro sporgevano dei capelli bianchi e fittamente ricciuti, come sporchi. Sbuffò, poi sospirò, nel sedersi, chiedendo permesso. Glielo accordai malvolentieri: ma non c’erano altri tavolini liberi, nel salone del bar. Intanto venivano i rumori della nave in partenza.
«Avremo un mare buonissimo, - m’informò. – Però a me importa poco. Anzi, - rise, - quando si balla mi diverto». Continuai, senza rispondere, a mangiare i miei tramezzini, che parevano fatti di plastica, a bere la mia birra, dal sapore di fieno stantio: non ero in animo di reggere una conversazione. Tanto meno questa, con un simile personaggio. Avrei voluto starmene da parte: pensare solo a quanto mi capitava, capire se ciò che provavo era una specie di felicità o una specie di disperazione.
«Non prendo apposta la cuccetta, - ridacchiò ancora: - Mai». Appena seduto aveva cominciato ad asciugarsi il viso dal sudore, con una salvietta di carta colorata; benché fuori, da dove veniva, facesse freddo, sotto la pioggia minuta nella sera di dicembre. Neppure io avevo una cabina, né una cuccetta, non m’era riuscito di trovarne: perduto l’aereo, ero salito sulla nave all’ultimo momento, per ripiego. «Chiedo scusa», il mio occasionale compagno ripeté; e si chinò a rovistare dentro una enorme borsa, o sacca, tenuta sul pavimento fra i piedi. Ne trasse una bottiglia d’acqua, che poggiò sul tavolino; poi del pane, che sistemò pure lì accanto; infine un gran pezzo di formaggio: e, tagliandone man mano delle fette sottili con un temperino, si mise anche lui a mangiare. Distolsi lo sguardo, verso il televisore che trasmetteva – erano ormai giorni e giorni – uno dei soliti programmi sulla morte del papa. Intanto il Geppetto beveva dalla bottiglia, direttamente, fra un boccone e l’altro, commentando: «A me piacciono le cose genuine. E sono peggio d’un topo: ormai mi nutro solo di formaggio. Del resto il calcio fa bene alla salute».
Tenevo, quasi con ostentazione, il viso rivolto al televisore: ecco il pontefice dodicenne, in un’antica fotografia sbiadita, sullo sfondo d’una musica solenne e mortuaria.