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PAOLO MACCIONI


Nuoro, Poliedro, 2003
L'ufficio del pietrisco
Paolo Maccioni
Per esempio.
Per esempio, il nome: Antonio Chessa era conosciuto come Antonio Chessa. Solo e semplicemente col nome e cognome anche a Nuoro, che voleva dire che né a lui né, soprattutto , a nessuno dei suoi progenitori era stato mai assegnato un nomignolo, un soprannome di quelli che vengono ereditati da tutta una discendenza e che identificano il ceppo familiare meglio del cognome. Forse perché di Chessa nel quartiere di Santu Predu c’erano solo loro, pochi altri in tutta Nuoro, o più probabilmente perché nessuno della famiglia si era mai reso riconoscibile per una qualche singolarità, un vizio inconsueto o una caratteristica fisica. A dire il vero il nonno di Antonio, che si chiamava Antonio pure lui, aveva un passo singolare, appena claudicante, ma in una misura quasi impercettibile, e la stessa andatura aveva Antonio. Quel passo che un tempo si era affaticato solitario su sentieri di campagna, ora attraversava crocicchi trafficati in una città frettolosa e sbadata.
Di fisico asciutto, sguardo remoto, come apparentemente distratto, e con un sorriso ferino che gli scopriva i canini di sopra, Antonio Chessa aveva conservato i tratti di una genìa di Santupredini che erano stati pastori fino alla generazione del nonno. Già il padre e lo zio di Antonio avevano studiato all’università, in continente, ed anche Antonio aveva lasciato Nuoro al termine delle superiori ed ora si stava laureando in Leggi a Cagliari. Ma il contegno austero e frugale e quella riservatezza, o pudore, erano gli stessi di quei Chessa avvezzi al silenzio delle pietre e alla promiscuità con gli animali. Così pure certe espressioni del viso del nonno rivivevano in Antonio, come l’aggrottare delle sopracciglia e il protrudere delle labbra quand’era concentrato in qualche attività manuale, e pure le inclinazioni.
Per esempio anche Antonio cantava a tenore, nel suo gruppo faceva sa contra, come il nonno, e come lui ci sapeva fare con le parole e con le rime, componeva strofe di muttos e ricordava a memoria moltissime poesie sarde.
E gli capitava talvolta, magari al volante o allo specchio, di incontrarsi nell’esercizio solitario di ruminare parole, isolarne il suono o inventare nessi che le imparentassero, così, per cercare di redimerle dalla concretezza.
 
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