Trieste, Edizioni EL, 1999
Sola andata
Marcello Fois
Il gran giorno arriva
La notte precedente al gran giorno Volpe fece un sogno. Uno di quelli che si fanno sapendo che per quanto ci si sforzi di ricordarli quando arriva il momento di raccontarli, appena svegli, se ne sono già andati chissà dove «nella cantina del cervello» come diceva sempre suo padre. Era stato un sogno importante, qualcosa che lo riguardava molto da vicino, molto da vicino. Qualcosa del tipo che lui era diventato grande e raccontava a suo figlio le storie di quando anche lui era bambino.
E sì, su questo non c’erano dubbi: c’era un bambino nel suo sogno.
Forse lui stesso anni luce prima, quando gli piacevano ancora cose del tipo micromachines o i cartoni giapponesi. Quando ancora faceva le elementari. E portava il trenta di scarpe.
Ora portava il trentotto. Mica roba da poco.
Ed era alto un metro e cinquantanove! Il più alto della classe.
E dimenticava i sogni, anche quando sembravano importanti.
Era nervoso Volpe e aveva dormito male, il suo sogno se l’era filata come un ladro sorpreso a rubare, ma qualche traccia l’aveva lasciata: piccole orme di cose inspiegabili.
Era nervoso per la partita, per la porta da custodire e per la strana certezza, forse un’altra traccia di quel sogno che non riusciva a ricordare, che quel giorno non sarebbe stato un giorno come gli altri.
Il gran giorno come diceva suo padre. E poi diceva robe a cui credono solo i grandi, quelli grandi grandi, tipo che non è importante vincere; tipo che bisogna mettercela tutta e questo basta.
La notte precedente al gran giorno Volpe fece un sogno. Uno di quelli che si fanno sapendo che per quanto ci si sforzi di ricordarli quando arriva il momento di raccontarli, appena svegli, se ne sono già andati chissà dove «nella cantina del cervello» come diceva sempre suo padre. Era stato un sogno importante, qualcosa che lo riguardava molto da vicino, molto da vicino. Qualcosa del tipo che lui era diventato grande e raccontava a suo figlio le storie di quando anche lui era bambino.
E sì, su questo non c’erano dubbi: c’era un bambino nel suo sogno.
Forse lui stesso anni luce prima, quando gli piacevano ancora cose del tipo micromachines o i cartoni giapponesi. Quando ancora faceva le elementari. E portava il trenta di scarpe.
Ora portava il trentotto. Mica roba da poco.
Ed era alto un metro e cinquantanove! Il più alto della classe.
E dimenticava i sogni, anche quando sembravano importanti.
Era nervoso Volpe e aveva dormito male, il suo sogno se l’era filata come un ladro sorpreso a rubare, ma qualche traccia l’aveva lasciata: piccole orme di cose inspiegabili.
Era nervoso per la partita, per la porta da custodire e per la strana certezza, forse un’altra traccia di quel sogno che non riusciva a ricordare, che quel giorno non sarebbe stato un giorno come gli altri.
Il gran giorno come diceva suo padre. E poi diceva robe a cui credono solo i grandi, quelli grandi grandi, tipo che non è importante vincere; tipo che bisogna mettercela tutta e questo basta.