Nuoro, Il Maestrale, 2003
La città d'acqua
Giulia Clarkson
Seguace del cadenzato scrosciare dell’acqua, rimuovo alghe centenarie dagli occhi di una muta testa di donna. Peso le dita grosse e maldestre cui le sedimentazioni del tempo, affezionate al volto d’argilla come fossili di un’unica materia, tentano di resistere. Incido e raschio via senza mai azzardare un movimento che non abbia la dovuta accortezza. Una lametta affilata, stretta con la lenza attorno al bastoncino di un ghiacciolo alla menta da trenta lire, è il mio strumento di precisione.
Salvatore dice che è il volto di Giulia, prima moglie di Tigellio, il romano della villa dietro Corso Vittorio Emanuele. L’ha ritrovata lui, la testa. Come molte altre cose che non mostra a nessuno. Anfore, cocci di ceramica e persino ossa molto antiche. Tiene tutto dentro una cesta di vimini, sotto il lavandino. E i pezzi che non ci stanno, come quell’elica di aeroplano che non è un esemplare da museo ma che tra breve lo diventerà, li ficca nel deposito degli attrezzi, in mezzo alle nasse, ai coppi e alle griglie.
Questa Donna Giulia non è stata molto consumata dal tempo. Per essere millenaria si conserva più che bene; si direbbe che gli agenti della laguna, le abbiano giovato. Gli occhi, lucenti intarsi di ceramica, mi obbligano alla maggiore fatica. Non voglio scalfire l’azzurro che l’acqua ha serbato così sgargiante, grazie ai vegetali tentacolari che lì hanno nidificato. La donna che amerò avrà gli occhi di questa medesima sfumatura simile a quella del cielo estivo di maestrale, quando l’acqua della laguna si abbassa e bisogna camminare a lungo, prima di arrivare a un metro di profondità.
Dunque ti bacio, testa della nobiltà romana naufragata in un metro d’acqua paludoso tra il dolce e il salmastro, liminare della terra e antiporto del mare. Ti bacio perché ti faccia pellegrina del mio bacio per altrettanti millenni, fino a quando nella donna che amerò non sorgerà il desiderio del mio amore. Ti donerò a lei non appena sarai perfetta e talmente bella che non potrà non commuoversi guardandoti; e guardandoti penserà a me che ho smosso secoli di concrezioni per lei; lei che ad ogni alba mi induce ad immergermi con la griglia e frugare sotto la sabbia affinché l’anello del nostro amore risalga dall’acqua, avvinto nei filamenti del setaccio.
Salvatore dice che è il volto di Giulia, prima moglie di Tigellio, il romano della villa dietro Corso Vittorio Emanuele. L’ha ritrovata lui, la testa. Come molte altre cose che non mostra a nessuno. Anfore, cocci di ceramica e persino ossa molto antiche. Tiene tutto dentro una cesta di vimini, sotto il lavandino. E i pezzi che non ci stanno, come quell’elica di aeroplano che non è un esemplare da museo ma che tra breve lo diventerà, li ficca nel deposito degli attrezzi, in mezzo alle nasse, ai coppi e alle griglie.
Questa Donna Giulia non è stata molto consumata dal tempo. Per essere millenaria si conserva più che bene; si direbbe che gli agenti della laguna, le abbiano giovato. Gli occhi, lucenti intarsi di ceramica, mi obbligano alla maggiore fatica. Non voglio scalfire l’azzurro che l’acqua ha serbato così sgargiante, grazie ai vegetali tentacolari che lì hanno nidificato. La donna che amerò avrà gli occhi di questa medesima sfumatura simile a quella del cielo estivo di maestrale, quando l’acqua della laguna si abbassa e bisogna camminare a lungo, prima di arrivare a un metro di profondità.
Dunque ti bacio, testa della nobiltà romana naufragata in un metro d’acqua paludoso tra il dolce e il salmastro, liminare della terra e antiporto del mare. Ti bacio perché ti faccia pellegrina del mio bacio per altrettanti millenni, fino a quando nella donna che amerò non sorgerà il desiderio del mio amore. Ti donerò a lei non appena sarai perfetta e talmente bella che non potrà non commuoversi guardandoti; e guardandoti penserà a me che ho smosso secoli di concrezioni per lei; lei che ad ogni alba mi induce ad immergermi con la griglia e frugare sotto la sabbia affinché l’anello del nostro amore risalga dall’acqua, avvinto nei filamenti del setaccio.