Figli di Adamo

Non sono ritornato per Benito. Tanto meno col sospetto che in molti gli avessimo dato una mano per morire. Certe cose però bisogna farle, per comprendere un po’ perché si fanno.
Io tornavo dal freddo.
Mi confondevo spesso di stazione nella U-Bahn, però stavolta riesco a essere puntuale alla Gedächtnis Bibliothek. Subito m’intimorisce la linda simmetria di una gran sala luminosa: mi succede ancora, se capito in un tempio del sapere, mi sopraffà il disagio del villico nell’urbe, e serve a poco giocarci d’ironia, con il ricordo dei rimproveri di un padre già profeta di sciagure a me studente, per esempio: «Di questo passo non inciamperai contro gradini di università», diceva, tanto alti e irraggiungibili sembravano a mio padre quei gradini; e ci ho inciampato, poi, all’università, solennemente, alla mia prima entrata in aula per tenere una lezione: tutto preso dal modo di apparire, ho incespicato sulla soglia e son schizzato ad abbrancare la cattedra dove facevo le prove di nascosto.
Eccolo lì, dietro il bancone, un impiegato bada al prestito dei libri, all’ordine del luogo, un tipo di prussiano magro e piccolo invece che massiccio e prolungato, capelli crespi e sotto il mento un farfallone color vino; mi guarda con distante cortesia, e prima di riuscire ad aprir bocca mi trovo tra le mani un formulario: zu Befehl, gli dico quasi, e lo compilo, poi ci allego la lettera di presentazione della fondazione che mi paga gli studi col soggiorno; lui la sbircia, la guarda e subito s’irrigidisce, e al termine della lettura è già del tutto sull’attenti, zur Verfügung: adesso sì vorrei vedere la faccia di mio padre, lui che dei tedeschi coltiva sempre ancora un suo ricordo di protervia.