Dopo l'estate avara di pioggia arrivò finalmente l'autunno ricco di nuvole grasse. Per più di un mese un'acqua oleosa si stese come un velo tra le tegole e i campi di Orotho, prima di perdersi in un intrico di rivoli che gonfiarono il fiume Colovru fino a farlo somigliare ad una grassa biscia. Era la domenica dei Morti.
Quel mattino don Frunza si accontentò di un po' di caffè nero e qualche bistoccu decorato con zucchero e albume. Di solito, ai primi languori rispondeva con ben altro: uova fritte, crude, bollite, formaggio, cipolle e salumi di ogni tipo. Il tutto tagliato a tocchi grossi, per non sentirsi lo stomaco gorgogliare dopo qualche minuto. Il suo peso e l'appetito dipendevano dalla bontà dei fedeli, che a guardare la stazza e la fame dovevano essere quasi tutti benestanti o quantomeno generosi. Quel mattino, invece, dopo aver respirato per qualche minuto il silenzio snervante del cucinotto ancora immerso nel buio, inzuppò lentamente i biscotti spugnosi nel liquido e li portò alla bocca con calma, inseguendoli con la lingua per evitare che si spezzassero andando a sporcare la tovaglia incerata. Risucchiò quanto era rimasto nella tazzina e, varcando l'androne che separava la casa parrocchiale dalla sagrestia, andò ad aprire il portalone della chiesa. Portalone che in altri tempi rimaneva aperto alla preghiera anche di notte, fino a quando anime ancora ignote si appropriarono dei candelabri e delle offerte che don Frunza conservava in una cassetta di legno dietro il vestibolo.