"Se non fossi una donna, vorrei essere una donna. E ancora una donna. E poi ancora una donna. Ma se non potessi vorrei essere un airone"1.
Nell'opera di Beppe Fenoglio, nella maggior parte dei suoi testi, le figure femminili hanno una presenza ed un ruolo costanti - qui più, là meno segnati - in certi momenti quasi in ombra rispetto alla vicenda principale, altrove protagoniste assolute delle storie narrate.
Potremmo parlare di una vera e propria questione femminile che si esplica seguendo una linea di sviluppo-involuzione: dalla condizione di sottomissione esistente nelle vecchie Langhe, al momento più alto, quello della guerra partigiana, la calata su Alba, quando le donne mandarono "a farsi fottere" i comandanti partigiani e le loro disposizioni. Poi inizia la parabola discendente testimoniata dal rapporto uomo-donna, marito-moglie ne La paga del sabato, quando l'organizzazione sociale e familiare ha chiuso nuovamente la donna in una morsa ed ha annullato l'emancipazione raggiunta nel periodo della guerra partigiana. Ha annullato le conquiste raggiunte, non la coscienza della dignità della propria figura e del proprio lavoro: questi sono ormai elementi acquisiti e nessuna esterna coercizione può più soffocarli.
Ma, prima di avviare organicamente il discorso, sarà necessario soffermarsi un momento su due passi - una privata riflessione celata da Fenoglio fra le righe del Diario, il primo, e l'altro inserito in un'opera narrativa che, pur essendo rimasta inedita, era pensata per una destinazione pubblica - fra loro assai simili.
"Vista dall'antico mulino a vento di Murazzano, Belvedere è un angolo, ed è l'unico oggetto condegno delle mattinate più gloriose dell'anno. Così compatta e pur svariata in alto, appare una fortezza, abitata da cavalieri e monaci (della più alta qualità) senz'ombra di donne (con qualche rara vecchia donna per i servizi)"2.
"senz'ombra di donne": così deve essere una fortezza abitata da cavalieri o da monaci di alta qualità. Cavalieri come quelli che compaiono nelle canzoni di gesta, unicamente tesi all'impresa eroica, prima che il romanzo cortese aggiungesse ai fatti di guerra gli episodi d'amore. Monaci di antico e rigoroso ordine - non i fratacchioni che ammiccano gaudenti da tante pagine della nostra letteratura - regolati da una disciplina fatta di preghiera e d'opere di intelletto.
La corazza e la tonaca a difesa della tensione morale, scudo contro il peccato. E il peccato, non è nuovo nella tradizione culturale occidentale, veste spesso panni femminili.
Nella fortezza dei cavalieri e dei monaci la donna è ammessa unicamente quando ha perso gli attributi, l'attrattiva e i pericoli del proprio sesso, quando è vecchia, e solo, non va dimenticato, per i "servizi".
Una concezione assai simile è anche di Johnny il quale, appena arrivato al comando azzurro, rimane, di primo acchito, sconcertato per la presenza delle donne:
"Come Johnny notò fin dal suo arrivo nei paraggi del quartier generale, le donne non erano piuttosto scarse nelle file azzurre, con ciò aumentando quella generale impressione di anacronismo che quei ranghi ispiravano, un'abbondanza femminile concepibile soltanto in un esercito del tardo seicento, ancora fuori della scopa di Cromwell. Il latente anelito di Johnny al puritanesimo militare, appunto, gli fece scuoter la testa a quella vista"3.
È appena una prima impressione che subito verrà corretta, come vedremo, da una più attenta osservazione delle cose e da una più ponderata riflessione. Ma il fatto resta, ed è significativo perché testimonia di una posizione iniziale, emotiva che esprime, nei confronti della donna, un sentimento di rifiuto. I successivi aggiustamenti guidati dalla ragione potranno temperare questo atteggiamento, non mai modificarlo del tutto.
C'è poi, acomplicare - e rendere più affascinanti - le cose, un ulteriore moto che si accompagna e contraddice il rifiuto: l'attrazione. Un'attrazione dell'istinto, ma resa più ricca dall'evoluzione del pensiero, totale e sconvolgente, quale bene si esprime in un brano della prima redazione di Primavera di bellezza: "Si ritrasse dal parapetto e sedette su una panchina, mentre passavano tre studentesse reduci dall'Istituto di Chimica, che lo sogguardarono col misto sentimento della donna aggregata per l'uomo in solitudine. Le seguì con gli occhi fin che potè, fisso alle loro anche e più alle loro gambe, pensando ai loro futuri contatti e gravidanze, gli uomini che vi avrebbero avuto parte riuscendogli più misteriosi dello stesso polline che certamente indugiava sugli alberi incombenti"4.
È come una vertigine, il pensare al "sacro olezzo" della "ombrata intimità"5, uno stato di stordimento che avvince e confonde, esalta e complica il rapporto, non gli consente mai di scivolare sui binari di un cordiale cameratismo. La donna può dividere con l'uomo l'aspro lavoro nelle terre langarole, può essere preziosa compagna dell'impresa partigiana, può, in certi momenti, essere una douce soeur, ma è sempre donna, portatrice di un complesso messaggio affettivo ed erotico che non può essere ignorato, pena l'incomprensione delle mirabili figure femminili che si muovono nell'opera fenogliana.
Il primo personaggio di questa storia delle donne inserita nella più ampia storia delle Langhe è la padrona del bar-ristorante nella stazione ferroviaria di Alba. A lei il soldato Fenoglio si rivolge "alla sua maniera rinchiusa".
“– E il suo signore…”, e il narratore subito sottolinea: “Si badi che non aveva detto suo marito o il suo uomo, ma il suo signore…”6.
È una precisazione significativa; dimostra la piena consapevolezza di un autore che vuole affrontare tutti gli aspetti della realtà descritta, non si ferma alla tematica principale, ma costruisce un quadro nel quale trovino posto molti elementi, ognuno illuminato – e messo in evidenza – dalla sua propria luce.
Nel mondo langarolo – ed anche in quello cittadino di Alba, in un ambito commerciale, più dinamico di quello rurale, statico, per definizione – l’uomo è il signore.
Un signore ben strano, a dire il vero, che continua ad esercitare la sua signoria solo perché tale diritto gli viene riconosciuto, non è messo in discussione, neppure quando egli non ha la capacità di riaffermarla con le proprie opere: “– Vedete, – diceva, – il ristorante è tutto sulle mie spalle. Non mi dà il minimo aiuto, non potrebbe spostare una cassa di limoni da qui in là, tutto quello che fa è andare alla banca a ritirar le tratte, si può dire. E il ristorante è tutto sulle mie spalle, e se vi dico che il primo treno è alle quattro del mattino e l’ultimo a mezzanotte, vi dico che fatica che è. Non che io mi lagni, sopporto volentieri, dato che è l’uomo che ho sposato”7.
Primo personaggio, la padrona del bar, ed emblematico. Mette sull’avviso il lettore: d’ora innanzi la situazione, pur con tutte le necessarie varianti, sarà questa.
La donna sopporta. In genere volentieri, qualche volta inserita in un contesto familiare che interamente la annulla, come nel caso della moglie di Tobia ne La malora, altre volte con un ruolo più attivo, come la moglie dello ziastro in Un giorno di fuoco, ma pur sempre sopporta. E sa di farlo, è dotata delle qualità intellettuali necessarie per rendersi conto della propria condizione.
Come la vecchia Ghirardi, in uno degli episodi de Il paese, che impedisce al marito di portarle la borsa:
“Più avanti lui le disse: – Lascia che ti porti la borsa, donna.
– Mai al mondo, – disse lei.
– Perché?
– Perché nessuno al mondo deve vedere Carlo Ghirardi che porta la borsa alla sua donna.
– Che importa?
– È un voto che ho fatto il giorno che t’ho sposato. Mi dissi: Quello è un uomo. Come che sia, un uomo. Trattalo sempre da uomo.
– Avevi una bella testa. E ce l’hai.
– Chiedimi tutto tranne che di lasciarti portare le mie cose”8.
Ecco, c’è a spingere la vecchia, un condizionamento sociale e culturale, senza dubbio. Ma, da parte sua, si esprime, comunque, un atto di volontà che, mentre da un lato la spinge ad accettare il ruolo tradizionale, dall’altro ne descrive le capacità intellettuali.
Ha “una bella testa”, la Ghirardi, e non a caso proprio lei, mentre il marito è soddisfatto dell’affare appena concluso, ha i primi dubbi, osserva con attenzione le cose e si accorge della truffa subita. A lei spetta il compito di aprire gli occhi del marito, che non s’era accorto di nulla.
Le donne fenogliane, insomma, anche quelle inserite nelle storie ambientate nel periodo più antico, non sono mai delle stupide.
Possono anche accettare lo stato in cui vivono, ma ne comprendono sempre i limiti.
Comprendono che la sorte è dura per tutti, che la miseria è grande, la terra poco produttiva, la malora incombente. E che c’è l’uomo. L’uomo con il quale sempre dividono le asperità della sorte, l’uomo che devono sorreggere, guidare e consolare, quando è del caso, l’uomo che comunque, e non di rado, è un peso in più da sopportare.
Gli uomini in generale, come categoria, fanciulli troppo cresciuti ma pur sempre immaturi, invadenti e grevi, prigionieri della loro grossolanità9, e l’uomo in particolare, quello che si è scelto come compagno10.
Questo il dato di fondo, l’aspetto che meglio importa capire per apprezzare una rappresentazione che si esprime talvolta anche in maniera esplicita11, ma che più spesso va letta e interpretata con occhio teso a cogliere anche i significati non immediatamente dichiarati.
“Che a casa sua stia bene o stia male, una donna è nata per quello”12: così, riferendosi al marito, si esprime, ne La malora, Fede. È una verità che, nel mondo contadino prima della Resistenza, non può essere contraddetta, ma sulla quale si può riflettere, della quale si avverte l’inadeguatezza.
È la storia di Catinina del Freddo, narrata nel racconto La sposa bambina.
Come Agostino viene venduto ad un padrone, così Catinina, a soli 13 anni, viene venduta a un marito che non conosce. La sua situazione è peggiore rispetto a quella di chi è costretto a un lavoro servile, il consenso strappato solo con la promessa di una veste che poi non ha neppure il colore desiderato. Così Catinina si ritrova legata ad un uomo che immediatamente provvede a soffocarne gli slanci imponendole il reciproco uso del voi e riempiendola di schiaffi per punire un buonumore troppo apertamente manifestato.
Una situazione senza vie d’uscita, regolata da una “legge” che Catinina non conosce ma che impone obblighi severi:
“– Io non ci voglio più stare con quello là che mi dà del voi!
– Ma come non ci vuoi più stare? Invece devi stare insieme, e per sempre. È la legge.
– Che legge?
– O Madonna bella e buona, la legge del matrimonio!”13.
Questo stato di totale sottomissione, di acquiescenza a una sorte che non può, mai e in nessun modo, essere discussa, durerà fino alla stagione resistenziale. Sarà quello il momento in cui, infatti, l’opera fenogliana ci restituirà della donna un’immagine diversa e del tutto inedita.
Anche in precedenza, a dire il vero, esistono situazioni nelle quali le figure femminili compaiono con una funzione che varia rispetto a quella usuale negli scritti langaroli. Ma si tratta di un fatto tutto privato, del rapporto che con le donne creano Johnny di Primavera di bellezza, specie nella prima redazione, e Milton di Una questione privata.
La situazione generale nella quale è ambientato il primo romanzo e alcuni episodi del secondo, gli anni del fascismo trionfante, la tensione prebellica e il periodo di guerra fino all’8 settembre, non consentirebbero, e di fatto non consentono, almeno nella sfera pubblica, variazioni di sorta. La donna continua ad avere un ruolo subalterno, è esclusa dai momenti determinanti della vita sociale, relegata nella tradizionale funzione materna alla quale ora ci si prepara scientificamente con “rudimentali, noiose e piuttosto spoetizzanti lezioni di puericoltura”14.
Ma esiste anche uno spazio soggettivo, di Johnny e Milton, nel quale la figura femminile assume un rilievo davvero non trascurabile. La donna diviene qui una interlocutrice alla pari, esprime pareri in fatto di letteratura, manifesta una propria autonoma personalità, è capace di comprendere i turbamenti e le ansie del protagonista.
Così, nei primi capitoli del romanzo, è con le colleghe del liceo sue amiche che Johnny dialoga più spesso e con maggiore confidenza.
Di letteratura, soprattutto, ma anche delle sue aspirazioni (“E se diventassi uno scrittore?”15), dei suoi interessi e dei suoi affanni, la paura di morire prima di essersi realizzato come scrittore: “Tu mi considereresti ugualmente uno scrittore? – Sì, ugualmente, tanto più, Johnny. – Non dovrai dichiararmi al mondo, beninteso, ma tenermi per te sola. – Sì, ma dureresti tanto poco come scrittore, Johnny. Perché anch’io morirò. – No, tu a me sembri immortale”16.
Questa tematica e questa concezione, che non sono riprese nella seconda stesura di Primavera di bellezza, passano in Una questione privata. Il protagonista ha, in tale romanzo, un atteggiamento assai simile a quello di Johnny e lo esprime con un tono più maturo ed esplicito. Fulvia è per lui un punto di riferimento, il destinatario ideale di ogni pensiero e di ogni gesto. E non solo nel momento della infruttuosa recherche, ma anche prima, quando, adolescenti, avevano dato vita a un rapporto nel quale l’affetto si intrecciava ad una ampia consonanza di interessi.
Tra i due Fulvia è la più forte. È lei che assume un ruolo-guida, “tiene in agonia” Milton, esprime giudizi sul suo aspetto fisico, gli “impone” di scriverle, gli chiede di tradurre i versi dei Deep Purple. È sempre lei che stabilisce i tempi e il luogo dei loro incontri, lo complimenta per lo stile delle lettere.
Ogni atto del futuro Milton è un omaggio per Fulvia, le sue traduzioni un dono, come quello dei menestrelli alle donne dalle quali erano ispirati:
“La prima volta le aveva portato la versione di Evelyne Hope.
– Per me? – fece lei.
– Esclusivamente –.
– Perché a me? –
– Perché… guai se tu non sei il tipo per queste cose –.
– Guai a me? –
– No, guai a me stesso”17.
Ed è ancora Fulvia a stabilire che Milton deve imparare a ballare:
“– Devi imparare, assolutamente. Con me, per me. Avanti –.
– Non voglio imparare… con te –. Ma già lo teneva, lo spostava nello spazio libero e spostandolo ballava. – No! – protestò lui, ma era così sconvolto che non riusciva nemmeno a tentare di divincolarsi”18.
Un rapporto di coppia completamente nuovo, rispetto a quelli proposti dagli scrittori di tematica langarola. Certo, siamo qui in un ambiente cittadino socialmente e culturalmente evoluto, ma quel che più conta nel determinare un siffatto atteggiamento è la posizione politica di Johnny e di Milton, il loro istintivo antifascismo, la cultura inglese e l’amore per la pallacanestro vista con diffidenza dai fascisti, il rifiuto di modelli di comportamento giudicati ormai anacronistici.
Sono, in sostanza, maturi i tempi perché coerentemente con il disegno politico generale dal quale è ispirata la Resistenza, anche la concezione della donna venga adeguata ai tempi nuovi che vanno delineandosi. Un processo lento e faticoso, non sempre lineare, che le abitudini nei comportamenti sono più difficili da modificare degli stessi orientamenti politici.
Così, ancora in Una questione privata, sono espressi pesanti giudizi su una “lurida”: “che prima dei vent’anni aveva già abortito tre volte”19, e, quando Matè racconta l’episodio della maestra fascista, sembra che il maggior risentimento non derivi tanto dalle scelte politiche della donna, quanto dal fatto che ella abbia arrogantemente tenuto testa ai due uomini mandati a diffidarla.
Persino il ragionamento che serve a salvarla dalla fucilazione suona, almeno ad osservare le cose in un’ottica femminista, come una condanna: “In fondo è solo una donna che ragiona con l’utero”20.
Così, anche ne Il partigiano Johnny, il romanzo nel quale la consapevolezza dei tempi nuovi è più ampia e matura, ancora permangono tracce di concezioni antiquate.
“Una donna a qualcuno deve ben aggrapparsi”21: è la considerazione con la quale si liquida il pensiero dei fascisti passeggianti nelle grandi città con le donne sottobraccio; ma è considerazione atipica in un testo che solitamente affronta il problema con ben altra attenzione.
L’atteggiamento più comune ne Il partigiano Johnny, particolarmente quello espresso dal protagonista, è di grande rispetto, di simpatia e di affetto. Solo in un caso si dice di una donna che è “brutta come così brutta una donna non può concedersi di essere”22, ma è una riflessione che appartiene ad Ettore, un personaggio scanzonato, ben diverso da Johnny.
In genere il testo si sofferma sugli aspetti positivi concernenti la solidarietà23, il coraggio24, le doti morali25 mostrati dalla parte femminile della popolazione.
La presenza di una donna è sufficiente, da sola, a suggerire l’idea di una possibilità d’esistenza diversa da quella “verminosa” nella quale tutti quanti sono, al momento, immersi: “era lively-skinned ed apple-cheecked come se, anziché vivere in un verminoso autunno come tutti, vivesse un qualche reinvigorante inverno suo proprio”26.
Capitolo a parte è quello delle partigiane, preziose compagne di lotta, nei confronti delle quali Johnny deve, innanzi tutto, fare ammenda per il senso del puritanico fastidio provato al primo vederle al quartier generale: “Il solo fatto che portassero un nome di battaglia, come gli uomini, poteva suggerire a un povero malizioso un’associazione con altre donne portanti uno pseudonimo. Esse in effetti praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini loomed e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportandoli quanto gli uomini. Qualcuna cadde, e il suo corpo disteso worked up the man to salute then militarily. E quando furono catturate e scapparono, tornarono infallantemente, fedelmente alla base, al rinnovato rischio, alle note sofferte conseguenze, dopo aver visto e subito cose per cui altri od altre si sarebbero sepolti in un convento”27.
È una testimonianza, questa, più che un brano narrativo. Ci si sente dietro il dolente sentimento di una diretta esperienza appena compiuta che non è ancora passata attraverso il filtro della necessaria elaborazione stilistica. Tanto più preziosa, per comprendere il processo di lavorazione del romanzo, in quanto anticipa la materia che verrà trattata in uno degli episodi più tesi e commossi de Il partigiano Johnny, quello del ritorno di Sonia, la staffetta inviata da Nord alla ricerca di un medico, arrestata e torturata dai fascisti.
Era entrata in scena, in quella circostanza, come “una salubre, pimpante, animata ragazza”28: la ritroveremo “appesantita dalla sua propria fatica e dall’abito invernale”29.
L’abbigliamento è lo stesso della notte in cui aveva conosciuto Johnny: è il temperamento che è cambiato per la terribile prova subita: “al richiamo ed alla corsa essa stette come pietrificata, senza gesto di gioia o di riconoscimento, mentre Johnny anche per il rush della corsa e lo squilibrio sul sentiero dimorante le stendeva le braccia. – Non toccarmi, non toccarmi! – gridò quando le arrivò davanti”30.
Johnny comprende il suo stato d’animo, intuisce la tortura e le “celie roventi”, ne raccoglie le confidenze31, la accompagna fino a casa, standole vicino con delicatezza ed affetto. A lei si sente unito da un legame che è espressione della solidarietà partigiana: per questo sentimento giungerà ad odiare la giovane maestra che, lontana dai rischi della guerra, pone le premesse di una futura felicità borghese: “La maestrina era una ragazza come Sonia, ma certo non era stata violentata né seviziata, certo non avrebbe mai intrapreso le intraprese di Sonia, pensava soltanto agli uomini, al self-respect e ad un marito al di fuori di quel vortice di fascisti e partigiani… e Johnny sentì di poterla odiare, e la disprezzò intanto, mentre la chiamava tamburellando le nocche sui vetri della scuola”32.
È un sentimento l’odio – del quale, peraltro, Johnny si pentirà immediatamente – che nasce da eccesso d’amore, dalla solidarietà per quelle donne che non solo hanno compiuto, come gli uomini, una scelta politica di grande coraggio, ma, in più, hanno dovuto vincere pregiudizi, luoghi comuni, e gli ostacoli di una mentalità corrente non certo propensa a comprendere l’esatto valore ed il significato di quel gesto.
Per molte di loro, Sonia è tra queste, diventare partigiane ha significato la dolorosa rottura dei rapporti familiari più cari, significa sostenere l’insulto portato con duplice violenza contro la propria coscienza di donna e i sentimenti di amore filiale: “Hm, mia madre è una cara donna, d’acciaio. È una vedova, ed aveva tante speranze e progetti su di me. Il giugno scorso, quando entrai nei partigiani e glielo dissi, mi chiamò sgualdrina e m’ordinò di non parlare di patria e libertà, perché io ci andavo soltanto, disse, perché gli uomini mi piacevano troppo. E mi giurò che da quel giorno avrei trovato sempre la porta chiusa. In ottobre sono passata a casa, ma non mi fece entrare, mi fece aspettare sulla strada e mi gettò dalla finestra il denaro e la biancheria di cui avevo bisogno e mi richiamò sgualdrina per puro saluto”33.
Un prezzo enorme, come quello che, per tre pacchetti di sigarette da offrire a Johnny in uno dei momenti più disperati dell’esperienza partigiana, paga Elda, la raffinata, intellettuale e graziosa Elda, Elda che “scented so well and conqueringly, quel profumo non era un asperso profumo, si sarebbe detto il più nobile distillato della sua vera e propria composizione chimica”34.
Elda, “così esile”, e “tanto accogliente”35, Elda che per quelle sigarette “era andata dal ripugnante pizzicagnolo che faceva borsa nera generale e senza parlare si era stesa sul bancone e tirata la sottana sul viso”36.
Per questi motivi, per aver compreso l’importanza delle scelte, la totalità dell’adesione femminile, non può essere ironico ma solidale, divertito, forse, ma ammirato per l’entusiasmo e l’assoluta convinzione delle protagoniste, lo sguardo di chi osserva e descrive la calata delle donne su Alba: “Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi sfottere e s’erano scaraventate in città”37.
È come una marcia trionfale, la sfilata, simbolo di una libertà finalmente raggiunta e che nessun uomo, sia pure comandante partigiano, può più mettere in discussione.
Una certezza appena turbata dal presentimento così espresso, nell’Ur partigiano Johnny, dalle parole di Dea: “Dea spiegò che lei non avrebbe potuto aspettare la fine della guerra, per prendersi un uomo uscito dal combattimento; inevitabilmente l’uomo si sarebbe guastato coll’atto stesso di sopravvivere e uscirne. – Anche tu, Johnny, sarai come diminuito e opacizzato, se ci arrivi”38.
Diminuiti e opacizzati, rispetto allo splendore dei giorni nei quali fu concepita tutta intera la speranza di un mondo migliore, sono, come si è visto, i tempi del dopoguerra.
La donna, non più protagonista, diviene nuovamente una parte della casa, un utensile da adoperare quando lo si ritenga opportuno. “– Non parlare con quella voce. Anzi non parlare niente. Lascia dire a noi uomini”39, ingiunge il padre di Ettore a sua moglie e, subito dopo, con durezza soggiunge. “Ficca il naso nella tua pentola e non tirarlo più fuori. Ti ho sposata solo per questo, se vuoi saperlo!”40. Così spiegati e senza tante perifrasi i rapporti di coppia, è chiaro che l’insieme degli atteggiamenti dai quali sono regolate le relazioni interpersonali è tornato all’antico cliché.
Vanda, nonostante i suoi slanci, è pur sempre in uno stato di soggezione nei confronti di Ettore e, all’interno della sua famiglia, interamente dipendente dalle decisioni del padre e dei fratelli ai quali sembra giusto stabilire quale sia il tipo d’uomo adatto a lei.
Di diverso, rispetto al passato, c’è che ora la donna sente di essere defraudata di un proprio diritto, capisce che esistono differenti possibilità di vita, può ancora stare sottomessa, ma non è più convinta della necessità, dell’obbligo morale, quasi, di farlo. Lo si comprende chiaramente dal colloquio tra Vanda ed Ettore durante il quale la donna tiene testa all’uomo con l’orgogliosa consapevolezza del proprio ruolo sociale:
“– Io lavoro.
– Dove lavori?
– In casa.
– Chiamalo lavoro.
– È lavorare sì. Far da mangiare, lavare, stirare, cucire, pulire tutto, il pavimento come i piatti come le scarpe, pensare all’acqua, al fuoco, lo sai che mia madre ed io tante sere abbiamo certi mali di schiena che pochi operai hanno?
– Ma non sei sotto un padrone.
– Io sono la serva di mio padre e dei miei fratelli. Tu non t’immagini come mi comandano”41.
Ma, sotto questo profilo, è IX bis il testo esemplare, lo scritto che meglio documenta il clima di un’epoca ormai sorda a molte delle idee cresciute nel periodo della Resistenza, quello in cui c’è la prova del tradimento compiuto dall’uomo nei confronti della donna, di quelle donne al fianco delle quali pure aveva combattuto e sperato.
È Jimmy – deludendo una speranza di Nick che la dice lunga sulle qualità del vecchio leone – che racconta di non aver sposata Meris e brutalmente argomenta: “Meris era una ragazza magnifica, la migliore staffetta di tutto il gruppo divisioni, ma era troppo tuttofare. Mi spiego? Io ero nella causa fino al collo, e tu lo sai, ma il matrimonio è un’altra cosa”42.
Nella volgarità di quel tuttofare c’è una chiara spiegazione del mancato matrimonio con Meris, della concezione che Jimmy ha della donna, del grado di consapevolezza con il quale è stato nella “causa”. Assai poco convinto, invero, se non è riuscito a cogliere uno degli elementi più importanti proposti dalla guerra di liberazione.
In quel periodo, giovanile ed illuso, Meris poteva anche andare bene e forse il carattere tuttofare rappresentava una gradevole attrattiva. Il dopo, la normalizzazione, riassunzione di valori borghesi solo momentaneamente, e mai del tutto, accantonati, implica un matrimonio all’altezza dei sogni di status sociale elevato, le ville e la Citroen DS.
In questa prospettiva la staffetta partigiana è svalutata e scompare per cedere il posto ad un’altra ragazza, “l’unica che portava le trecce” nei grandi balli subito dopo la Liberazione, a testimoniare, in quei momenti ancora convulsi, l’attaccamento ad un valore tradizionale – simboleggiato dalla pettinatura – del quale, scemato il vento rinnovatore, non si può più fare a meno.
Sospeso in un tempo indefinito, inessenziale è sapere se i fatti narrati sono riferiti ad un prima o ad un dopo, la stessa guerra divenuta, in questa prospettiva, del tutto irrilevante, è un breve brano composto da Fenoglio negli anni tra il 1961 e il 1962, quando lavorava, con Bettetini, attorno ad un progetto di sceneggiatura cinematografica.
In una Appendice, pubblicata nella Nota ai testi relativa al terzo volume dell’edizione einaudiana, sono raccolti alcuni brani “ruotanti intorno al progetto di film e costituenti, nell’insieme, materiale ad uno stadio di elaborazione ancora molto fluido, continuo e quasi inavvertito, ad esempio il passaggio dal presente al passato, che dà ai brani una fisionomia oscillante tra l’appunto per una sceneggiatura cinematografica e il frammento narrativo”43.
Uno di questi brani, quello siglato e, giudicato decisamente “narrativo anche per l’uso costante del passato”44, può essere assunto come emblematico, riassuntivo e conclusivo, di quella storia della donna che abbiamo fin qui esaminato.
È, senza alcun dubbio, il più bel racconto erotico di Fenoglio. L’unico interamente scritto per essere precisi. Perché con questo genere lo scrittore albere si è misurato – meglio, data la materia, sarebbe dire: da questo genere è stato tentato – diverse volte (spunti di tale tipo sono presenti in molte sue opere, i più vivi, forse, quelli de Il partigiano Johnny), sempre mostrando interesse per l’argomento e leggerezza di tocco – uno stile alla sua maniera rinchiusa – nel trattarlo, ma non riuscendo mai ad organizzarlo in uno scritto compiuto. Qui, e nel successivo e complementare frammento f, il discorso trova un suo svolgimento e raggiunge punte di alta emotività.
La vicenda, assai scarna, può essere facilmente riassunta. È la storia di Palma, giovane donna sposata con Davide e madre di una bambina di tre anni, Jolanda, che, durante un temporale da cui è sorpresa lungo la strada di casa, trova riparo in un vecchio seccatoio abbandonato. Lì incontra Amedeo, il norcino, dal quale viene sedotta. Un breve incontro, apparentemente senza conseguenze, data la discrezione dell’uomo, che lascia però una traccia profonda, come si legge nel frammento f , fino a far comprendere a Palma tutta la fragilità del suo rapporto matrimoniale.
L’interesse del brano si rivela dalle prime battute, nella descrizione dei tratti fisici di Palma, sottolineati dai vestiti che la pioggia incolla al suo corpo. È la scoperta di una dimensione sensuale del tutto nuova, almeno in questi termini, nel mondo contadino delle langhe. Una dimensione fin qui rimossa, deliberatamente ignorata ma pur sempre esistente, che può riemergere, e rivendicare i propri diritti, solo che si determini il clima senza il quale tale forma di espressione rimarrebbe per sempre inespressa.
Il momento, per Palma, è quello dell’incontro con Amedeo, con il suo modo di affrontare la situazione paterno e affettuoso, deciso e delicato.
Amedeo poi sparisce, fisicamente, dalla vita della donna.
Il frammento f, che narra fatti accaduti quattro anni dopo l’episodio descritto in e, un anno dopo la solitaria morte di Amedeo, spiega, però, quale sia stata la reale portata di quell’incontro: “Quell’uomo già sotto terra, che l’aveva avuta una volta sola e a quel modo, era infinitamente più concreto di Davide che l’aveva da sette anni e l’avrebbe ancora avuta per chissà quanti altri anni”45.
Davide, “brusco e violento”, Davide che fa a Palma “una paura mortale”, è l’esatto opposto di Amedeo che, in un giorno lontano, aveva perfettamente capito la donna incontrata per la prima volta e le aveva offerto il sentimento di cui ella aveva bisogno.
Davide non comprende il disagio della moglie e lo scambia per un banale mal di denti, così che Palma, senza ulteriori spiegazioni, può allontanarsi dal letto in cui stava come su “una distesa di carboni ardenti”: “Annaspò verso l’uscio poi brancolò per la scala e arrivò in cucina. Per convincere Davide fece un po’ di rumorino spostando un bicchiere e sbattendo un cucchiaino. Poi si strinse nella camicia e sedette accanto alla stufa spenta. Più di un’ora ci restò, tanto Davide si era certamente riaddormentato e non poteva calcolare il tempo: poi quando non potè più resistere al freddo e alla spossatezza, risalì”46.
Una Emma Bovary delle Langhe, Palma.
Allo scritto del quale ci siamo occupati potrebbe tranquillamente riferirsi un giudizio simile a quello che Erich Auerbach dedicò al romanzo di Flaubert: “Il romanzo è la rappresentazione di un’intera vita umana senza uscita, e il nostro brano ne è un frammento, che però già contiene in sé tutta la storia”47.
Palma scende in cucina, si stringe nella camicia e siede accanto alla stufa fredda. Non succede nulla “ma il nulla è diventato qualche cosa di pesante, di oscuro, di minaccioso”48, è la evidente testimonianza della condizione cui è giunta l’esistenza di Palma.
Abbandono, solitudine, incomprensione, impossibilità di realizzare, almeno nell’ambito delle istituzioni esistenti, quella matrimoniale, in primo luogo, le proprie aspirazioni, sono i tratti distintivi dell’esperienza compiuta dalla protagonista dei brani esaminati.
Sotto questo profilo può dirsi che la sconsolata chiusa del frammento f è una perfetta conclusione della storia della donna delineata dall’opera di Beppe Fenoglio.
Note
1 Il partigiano Johnny (prima redazione, d'ora in avanti 1), in Opere, edizione critica diretta da M. Corti, Torino, Einaudi, 1978, vol. I, tomo II, p. 402.
2 Diario, in Opere, cit., vol. III, p. 199.
3 Il partigiano Johnny 1, cit., p. 541.
4 Primavera di bellezza (prima edizione, d'ora in avanti 1), in Opere, cit., vol. I, tomo III, p. 1274.
5 Il partigiano Johnny 1, cit., p. 803.
6 La licenza, in Opere, cit., vol. III, p. 127.
7 Ivi, p.128.
8 Il paese, in Racconti sparsi editi e inediti, in Opere, cit., vol. III, p. 66.
9 "- Manica di malparlanti, - disse Jeanne avviandosi, - stupidoni che crediate che noi donne siamo al mondo solo per quello, - disse con tristezza" (ivi, p. 16).
10 "Ti sei alzato alle otto, io alle quattro. Mi hai fatto colazione per due, a pranzo hai mangiato per quattro ed hai preteso la torta di zucchini, sapendo lo straordinario lavoro che mi dà. Tra stamattina e adesso hai fumato venti sigarette minime, hai bevuto due birre e quattro gazose, hai sgranocchiato un etto di caramelle, e adesso mi rivuoi della birra. Se non ti arrivavo alle croste, già l'avevi grattata" (ivi, p. 17).
11 "- L'hai abituato male il tuo uomo, lascia che te lo dica, Marie. Ti ha sempre fatto tremare dal primo giorno all'ultimo" (ivi, p. 27).
12 La malora, in Opere, cit., vol. II, p. 431.
13 La sposa bambina, in Un giorno di fuoco, in Opere, cit., vol. II, pp. 462-463.
14 Primavera di bellezza 1, cit., p. 1306.
15 Ivi, p. 1273.
16 Ivi, p. 1322.
17 Una questione privata (terza redazione), in Opere, cit., vol. I, tomo III, p. 1941.
18 Ivi, p. 1947.
19 Ivi, p. 2024.
20 Ivi, p. 2046.
21 Il partigiano Johnny 1, cit., p. 582.
22 Ivi, p. 800.
23 "Con le donne del paese che li seguivano oltre la cinta, con lacrime di sollievo e maternità, rimpinzandoli di tutto d'un tratto reperiti dolciumi e sacchetti di frutta secca, ed anche con sigarette tesaurizzate" (ivi, p. 731).
24 "La padrona era una delle più forti e audaci e cupide donne delle colline" (ivi, p. 733).
25 "Ed erano anche stanche e intrepide, lacrimose e determinate" (ivi, p. 784).
26 Ivi, p. 679.
27 Ivi, pp. 541-542.
28 Ivi, p. 803.
29 Ivi, p. 858.
30 Ivi, pp. 858-859.
31 "Sai, Johnny, non voglio più avere un uomo per tutta la vita" (ivi, p. 859).
32 Ivi, p. 862.
33 Ivi, pp. 861-862.
34 Il partigiano Johnny 1, cit., p. 714.
35 Il partigiano Johnny (seconda redazione), in Opere, cit., vol. I, tomo II, p. 1047.
36 Ivi, p. 1058.
37 I ventitré giorni della città di Alba, in Opere, cit., vol. II, pp. 228-229.
38 Ur partigiano Johnny, in Opere, cit., vol. I, tomo I, p. 292.
39 La paga del sabato, in Opere, cit., vol. II, pp. 130-131.
40 Ivi, p. 131.
41 Ivi, pp. 135-136.
42 IX bis, in Racconti sparsi editi e inediti, in Opere, vol. III, p. 119.
43 P. Tomasoni, Nota ai testi, in Opere, cit., vol. III, p. 735.
44 Ivi, p. 736.
45 Appendice f al Progetto di sceneggiatura cinematografica, in Opere, cit., vol. III, p. 787.
46 Ivi, p. 787.
47 E. Auerbach, Mimesis, Torino, Einaudi, 1964, vol. II, p. 263.
48 Ivi, p. 263.