Il 25 luglio del 1970, a Fregene, verso le sei del pomeriggio, Salvatore Satta, illustre giurista dell’Università "La Sapienza" di Roma noto a qualsiasi civilista d’Italia per il Commentario al codice di procedura civile, convocò tutti i fantasmi di Nuoro, sua città natale, nello spazio dilatato della memoria. Fatto l’appello, constatato che non vi erano assenti, iniziò a scrivere Il giorno del giudizio. Lo avrebbe terminato due anni più tardi, il 26 novembre del 1972.
Storia della famiglia di don Sebastiano Sanna e di donna Vincenza, ma anche storia di Nuoro e specchio dell’umanità, Il giorno del giudizio è un romanzo intenso, duro, ricco di giudizi e di sentenze senza appello, ritratto della forza e della debolezza dell’uomo. Se da una parte don Sebastiano è un personaggio a tutto tondo, un attardato rappresentante del secolo dei lumi "nutrito dalla certezza nel potere dell’uomo sulle forze della natura", ha però anche tratti di estrema durezza che si esprimono icasticamente nella frase ripetuta per anni alla propria moglie "zitta tu che stai al mondo soltanto perché c’è posto". Nuoro, la sua città, è "un nido di corvi", ma lo è per lo stesso motivo per cui lo sono tutte le città del mondo: "c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. (...) Perciò non vi era odio, non vi era amore, c’era la contestazione dell’altro, che diventava la contestazione di sé stessi". Il giurista, insomma, aveva bisogno di una sentenza che sancisse il senso delle cose a lui note, e la pronunciò: "Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti accolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale".
Satta scrisse il suo romanzo su due agende. Successivamente me ricavò un dattiloscritto, di cui affidò la battitura probabilmente a una persona di fiducia, ma non proprio precisa e attenta. Poi morì, nel 1975. I familiari decisero di pubblicare il dattiloscritto, mutando, esclusivamente per ragioni di prudenza e di garbo, quasi tutti i nomi di persona e di luogo in nomi di fantasia. La prima edizione a stampa uscì dunque nel 1977, a Padova, per i tipi della Cedam, una casa editrice specializzata in testi universitari. Passò quasi inosservata, finché Francesco Mercadante la presentò alla casa editrice Adelphi che ne curò la seconda edizione nel 1979: fu il successo internazionale che tutti conoscono. Il romanzo è stato tradotto in sedici lingue e pubblicato in diciassette paesi
A distanza di venticinque anni da quella data, esce ora l’edizione critica dell’autografo , curata da Giuseppe Marci , professore di Filologia italiana all’Università di Cagliari per i tipi del Centro di studi filologici sardi e della Cuec di Cagliari (tel. 070/291077). È finalmente possibile capire la genesi del romanzo. Satta, passando dalle agende al dattiloscritto da cui derivano tutte le edizioni, fece modifiche rilevanti al testo e Marci ne fornisce un totale ed esaustivo spoglio.
Ma l’immane lavoro di collazione realizzato dal curatore tra l’autografo, il dattiloscritto e le edizioni Cedam, Adelphi e Ilisso (1999), svela anche la natura e la quantità di numerosi errori introdotti nel dattiloscritto e da qui passati nelle successive edizioni. Alcuni sono macroscopici, come l’inversione dei capitoli XIX e XX. Altri meno evidenti: le mirabili fonti di Nuoro, sono diventate nel dattiloscritto miserabili e tali sono rimaste per tutti i lettori del romanzo, nonostante nella stessa frase si decantino le loro "acque freschissime", la "bianca e fine sabbia di Palma di seta", una spiaggia della costa orientale, diviene "la bruna e fine sabbia": un marcatore di bestiame, ossia una persona che marchiava buoi, cavalli e pecore, diviene prima un mercatore e poi un mercante che in aperta campagna dà indicazioni su un gregge rubato, cosa un po’ insolita, non solo nella Barbagia dei primi del Novecento, ma a tutte le latitudini.
L’edizione dichiara un proprio limite, voluto dai familiari e accolto dal curatore: i nomi dei protagonisti e dei luoghi non sono quelli presenti nell’autografo ma quelli scelti allorquando si diede alle stampe l’edizione Cedam. In fin dei conti, però, si tratta di una censura veramente da poco, perché i nomi veri forse potrebbero servire a un po’ di storia familiare e a qualche ulteriore pettegolezzo nuorese, ma niente aggiungerebbero o toglierebbero alla sostanza delle cose.
Paolo Maninchedda