L’edizione del testo, oltre che dalle necessarie notizie sull’autore, Francesco Ignazio Mannu, e dalle notizie relative alla storia editoriale dell’Inno, è preceduta da una sostanziosissima introduzione storica che ripercorre con rigorosa competenza e conoscenza le vicende della rivoluzione sarda avvenuta nello scorcio del secolo XVIII. Qui viene fatto il punto non soltanto sugli eventi e gli accadimenti, seguiti nel loro svolgersi, starei quasi per dire, giorno per giorno, ma anche e soprattutto sul travaglio ideale e di pensiero politico che agitava con fecondità i maggiori protagonisti di tali eventi, sulle condizioni sociali ed economiche della Sardegna dell’epoca, sugli umori diffusi, sui fatti diplomatici, sui giri e sui raggiri di un episodio storico tanto complesso e denso. Così che viene fatta giustizia di vari luoghi comuni, spesso viziati ideologicamente, relativi sia al fatto storico in argomento, sia più specificamente al testo e al significato dell’Inno di cui parliamo: a cominciare dalla o dalle denominazioni che accompagnano nelle conoscenze diffuse e vulgate il testo stesso, quasi sostituendone il titolo: denominazioni quali “Inno antifeudale” o “Marsigliese sarda”; il curatore invece con la sua prospettiva di storico e con una lettura accurata e meditata, mostra come entrambe le denominazioni oltre che non corrispondere a un titolo originario, siano in realtà anche infondate, in quanto l’Inno di su Patriota sardu non è né pervaso da ideologia antifeudale, né è espressione di quello spirito, di quella ideologia e di quel pensiero tutto proprio della Rivoluzione Francese di cui è informata la Marsigliese.
Non mi metterò certo né a competere con Luciano Carta sul piano delle conoscenze storiche, né a sceverare quanto egli abbia scritto e ci abbia fatto conoscere nell’Introduzione: storico non sono e posso quindi solo restare ammirato e imparare, come ho imparato, dalla lettura delle sue pagine.
Vorrei invece fare qualche riflessione, relativamente all’Inno, sul piano linguistico e stilistico. La lingua dell’Inno è il sardo; ed è ben questo ciò che fa problema: non tanto per il fatto in se stesso, quanto per la domanda che implicitamente ci si pone su che sardo sia stato usato per la redazione del testo, quale operazione linguistica l’autore abbia compiuto nel comporlo. E chiedendomi quale sardo sia stato usato non intendo dire quale variante della lingua sarda, che è la logudorese, come ben noto ed ovvio, magari con qualche innesto qua e là di campidanese, come pure già notato, ma intendo dire quale impasto linguistico stilistico l’autore abbia composto nella e per la sua creazione che, a prescindere da ogni giudizio estetico, è una creazione letteraria.
Scrivere in sardo, in una realtà che non aveva mai avuto una solida tradizione letteraria, era stato sempre una questione, latente o patente che si presentasse: e ciò, al tempo dei moti del tardo Settecento, almeno da due secoli (cioè alla fine del sec. XVI), quando si pose per la prima volta la questione della lingua, della lingua sarda, in modi di autoriflessione: quando cioè ci si volle porre il problema e si sentì la necessità di una scrittura e di una letteratura sarda. Fu l’Araolla con la sua attività di scrittore e soprattutto col suo preambolo al poema sui protomartiri turritani a porre, sia pure in maniera più che concisa e generale, i termini della questione, volendo intendere il sardo come lingua certo degna di una scrittura di registro alto e per argomenti d’ingegno, ma intendendolo pure come lingua ancora insufficiente, nei suoi mezzi, a sostenere un compito e un disegno di questo tenore: la lingua dell’Isola era, a suo vedere, una lingua ancora non affinata, ancora rude, grezza e che necessitava pertanto di un perfezionamento. Cosa che doveva avvenire, a suo avviso, sulla scorta di quanto avevano fatto già altre lingue scambiandosi reciprocamente il loro patrimonio lessicale, magari sostanziandolo, per lunga abitudine, di latinità e conformandosi a una retorica ormai sperimentata. Mancò però al sardo e ai suoi pur fervidi fautori quel coraggio e quell’intuizione soprattutto di scandagliare, dentro la lingua stessa, le capacità e le potenzialità più adatte a esprimere e ad esprimerla compiutamente: perché ne difettava la tradizione e il lungo esercizio necessario, mentre furono modelli esogeni a imporsi; si voleva cioè riverberare entro strutture linguistiche sarde, tanto in quelle portanti e fondamentali come in quelle minime, un’esperienza già provata da altre lingue: si volle insomma innestare una ricchezza linguistica altrui sulla radice più propriamente nostrana. D’altronde questi esperimenti cinquecenteschi non facevano che perseguire un’impostazione, che sebbene non autoriflessa, si era già manifestata nei pur scarsi tentativi tardo medievali (Carta de Logu, il Poema agiografico del Cano, e lo stesso più antico e pienamente medievale Libellus Judicum turritanorum). L’esperimento dell’Araolla tuttavia funzionò e in certa misura funziona tutt’oggi. Non va però dimenticato che queste stesse posizioni linguistiche si ritrovano, aggiornate però e già con uno spirito che potremmo definire scientifico, o quanto meno prescientifico se si vuole, e comunque illuminista, nell’opera del Madao, un contemporaneo degli eventi che qui ci riguardano, e contemporaneo non soltanto per ragioni meramente cronologiche, ma anche storiche e ideali. La sua opera intitolata Il ripulimento della lingua sarda, pubblicata a Cagliari nel 1782, è opera certamente d’erudizione e basata su presupposti di descrizione grammaticale e di intento retorico, ma certo non è priva di buone intuizioni proprie dell’autore o ricavate dal dibattito culturale e specificamente linguistico, italiano ed europeo (basti pensare alle frequenti citazioni del Muratori soprattutto, nonché del Du Cange e del Cuvarrubia, fra gli altri). Al di là dei fatti e delle proposizioni specifiche che, pur in sé assai rilevanti, non ci interessano in questa sede, è l’impostazione e la funzione sottesa a quest’opera che invece ha qualche cosa a che fare col testo che presentiamo, col suo autore e con i suoi tempi, potendosi infatti a mio avviso azzardare una qualche analogia fra il pensiero politico che portò alla rivoluzione sarda e alla sua conduzione da un lato, e dall’altro le idee del Madao. Si legga per esempio dall’allocuzione al lettore del Ripulimento del Madao:
La lingua della Sarda nostra nazione, comecché venerabile per la sua antichità, pregevole per l’ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante, per le bellezze che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma dimenticanza in fino al dì d’oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e dagli stranieri negletta come inutile. […] il natio linguaggio, ch’è il più sensibile vincolo del politico corpo de’ nazionali
Il Madao dunque afferma come necessario dare una capacità di buona ed elevata scrittura alla lingua sarda, dato che essa, ora negletta e disprezzata, ne ha tutto il potenziale, che potrà rivelarsi al meglio di sé dopo che essa sarà appunto ripulita e dopo che sarà ricondotta alle sue proprie, e nobili, origini, che, per il Madao, si troverebbero nel Greco e nel Latino. Ma, a parte ancora tutto ciò, è soprattutto il concetto del sardo quale lingua nazionale, in senso ancora settecentesco ma che già prelude all’Ottocento a dover interessare. Infatti se è pur vero che in Sardegna, dice ancora il Madao, gli uomini di cultura e di erudizione ben conoscono le lingue di maggiormente provata tradizione letteraria e culturale, l’italiano in primis, è pur vero che la lingua universalmente intesa in quella che egli chiama repubblica sarda, è proprio e appunto il sardo; esso però, per la negligenza dei nazionali, è stato trascurato e posto in non cale, e si tratta dunque di esaltarlo e di renderlo degno degli intenti, degli scopi e delle funzioni migliori: di modo che i Sardi, i sardi tutti, possano intendere i ragionamenti e gli argomenti più elevati non in una lingua loro estranea, ma nella loro: sicché possano meglio comprendere ed essere convinti di ciò che loro si propone. Non solo, ma la lingua sarda deve avere commercio con le altre lingue per potersi arricchire e affinare, e soprattutto per potersi immettere nel consorzio culturale e di idee degli altri popoli, nazioni e culture (e il paragone è fatto proprio con il commercio, fatto di stampo ben settecentesco quindi: come la Sardegna ha commercio di beni economici con altre nazioni, così deve averlo anche con le parole e i costrutti di altre lingue); ciò non significa allora chiusura dei sardi nella propria lingua, ma viceversa apertura al mondo, conoscenza delle altre lingue, a cominciare ovviamente dall’italiano, soprattutto da parte dei dotti e colti: prospettiva di internazionalizzazione se vogliamo dirlo, ma con forte radicamento nella nazionalità sarda. Vengono dunque tracciate delle linee di politica culturale ben marcata: e non v’è così chi non veda come l’opera e le idee del Madao vadano, in qualche maniera, di pari passo con quanto si agitava e si dibatteva nel contesto politico più strettamente inteso, e non solo sardo; ma per quanto ci riguarda da vicino, è affermata chiaramente, ma potrei anche dire rivendicata, l’esistenza di una nazione sarda in senso già moderno: nazione il cui vincolo sociale e civile è da ritrovare essenzialmente proprio nella lingua; ed altrettanto è proposta la necessità e la volontà di immettere la cultura sarda nel consorzio culturale internazionale; una tale petizione e rivendicazione della e per la lingua sarda si fonda sul dato delle sue rivendicate e ritrovate nobili origini: se oggi questa proposizione delle origini nobili della lingua può apparirci speciosa, e autofondata, e forse anche un tantino ideologica, tuttavia, non va dimenticato, essa ben si collegava con l’erudizione italiana ed europea del tempo.
L’Inno del Mannu risente di tale opera e di tali idee del Madao? Difficile, credo, rispondere in senso stretto se e quanto questi conoscesse l’opera del Madao, anche se ciò può essere più che probabile, visto che egli conosceva bene il contesto culturale a lui contemporaneo; in ogni caso si può rispondere affermativamente qualora si voglia intendere che l’Inno risente delle idee, anche linguistiche, a cui il Madao si rifaceva e che in buona misura in Sardegna egli andava affermando. Il testo del Mannu s’inserisce così bene in questa temperie di intenzioni culturali; e in qualche modo, anche se con altri intenti, la mette in pratica.
È stato ben messo in luce, da altri studi e studiosi, vorrei ricordare oltre che lo stesso Luciano Carta anche Antonietta Dettori, come il nostro testo sia composto da e con un impasto di registri e di toni linguistici e stilistici diversi: si riscontra innanzitutto una polarità primaria in cui si giustappongono un registro retorico elevato e quello più attinente al linguaggio comune e pragmatico, quello della comunicazione più usata e più comprensibile ad un pubblico vasto e composito. Se a noi oggi tutto ciò può apparire stonato e preferiremmo un dettato testuale che utilizzi quanto più possibile un lessico che tragga dal sardo stesso quanto necessario anche ai registri elevati, ciò non poteva darsi all’epoca in cui il testo fu scritto (e ancor meno alle epoche precedenti) quando non si aveva coscienza della stratificazione del lessico medesimo e quando il mescidamento di esso era cosa comune e ovvia più di quanto non lo sia oggi; quando lo stesso purismo non veniva inteso nel senso di un mantenimento di quanto è tradizionale e originario perché ciò mal si conosceva allora: in un momento storico in cui non si era in grado di distinguere una voce popolare e sedimentata da una voce culta e/o d’accatto, anche di tono elevato; il purismo, semmai può dirsi così, era invece inteso nel senso di un adeguamento a modelli alti già sperimentati, come già abbiamo detto e basti rileggere il Madao, per essere confermati in quanto dico.
La differenza fra la proposta di quest’ultimo e l’operazione concreta del Mannu sta semmai nel fatto che quest’ultimo spesso – non sempre certo ma quando è necessario – sostituisce, o meglio immette, un lessico estraneo attingendolo dai registri dell’attualità sociopolitica contemporanea, proprio perché (o anche perché) si tratta di una scrittura tanto militante e impregnata dell’attualità dei fatti, quanto concomitante con le situazioni stesse che la producevano.
All’interno di ciascuno di questi due termini della polarità si generano a loro volta registri diversi funzionalizzati a differenti scopi. Il registro principalmente diffuso nel dettato del nostro testo è quello di una retorica tesa al convincimento e all’insegnamento di coloro che sono i principali destinatari di esso, ovvero una larga parte di popolo di condizione sociale media o anche meno, e che era però avvezza alla predica dal pergamo, la quale già da sempre faceva uso di un tono più elevato e distinto dal linguaggio più comune e quotidiano: si pensi proprio alla prima opera letteraria sarda che ci sia pervenuta, ossia al già citato poema di Antonio Cano sui martiri turritani, che è opera certamente di fruizione popolare, ma che è già più che visibilmente intrisa di un lessico attinente a un registro alto, soprattutto ecclesiastico, agiografico e catechistico pedagogico.
Per tornare al nostro Inno, si vedano, per esempio, la strofe 23 e, soprattutto, la 30:
23. Ecco comente s’impleat/ de su poveru su suore/ Comente, eternu Segnore,/ Sufrides tale ingiustissia!/ Bois divina giustissia/ Remediades a tales cosas;/ Bois de s’ispinas rosas/ Solu podide bogare.
30. Però su Chelu hat deffesu/ Sos bonos visibilmente,/ Atterradu hat su potente,/ Ei s’umile exaltadu;/ Deus chi s’est declaradu/ Pro custa Patria nostra,/ De ogni insidia bostra/ Isse nos hat a salvare.
Non è chi non veda come non soltanto il tono, ma anche il lessico siano di carattere oratorio e in qualche modo d’altare sia pur trasposti e piegati alle esigenze politiche di propaganda e di convincimento all’azione, appunto ancora politica (e tralascio qui ovviamente il problema del rapporto che il Mannu aveva col credo religioso e quello della sua posizione ideologica e politica nei confronti della Chiesa: problemi ben lumeggiati dal curatore). Ma bisogna in ogni modo scontare il fatto che una tale sovrapposizione di registri è normale e regolare al sardo fin dalle origini ed anche per uditori di rango popolare.
Comunque, per tornare più allo specifico, data la situazione storica concreta e le idee che vi si agitavano, il lessico del nostro testo si riempie di termini politici e giuridici che generano in chi ascolta il contesto e le dimensioni proprie nelle quali lo si vuole coinvolgere, sfruttando nel fruitore quella capacità d’ascolto che già altrimenti possedeva. Come altro avrebbe potuto esprimere quanto alla strofa 8?
8. Nasquet su sardu suggettu/ a milli cumandamentos,/ tributos, e pagamentos/Chi faghet a su Segnore
Come cioè esprimere in maniera diversa termini e concetti quali suggettu, cunandamentos, tributos, pagamentos? Oppure come dire quanto alla strofe 37:
37. Si in impleos subalternos/ Algunu Sardu avanzàda,/ In regalos no bastàda/ Su mesu de su salariu:/ Mandare fit necessariu/ Caddos de casta a Turinu/ E bonas cascias de binu/ Cannonau, e malvasia.
Come dire cioè impleos e soprattutto subalternos, e come dire salariu? Certo si poteva anche ricercare all’interno del lessico sardo più depositato il sinonimo più attinente e proprio, ma da un lato sarebbe mancato l’aggancio alla realtà sociale e giuridica dell’epoca, con il connesso effetto di militanza e di aderenza alle situazioni contingenti, dall’altro non si deve dimenticare che l’autore è un avvocato, è cioè appartenente al ceto borghese e quindi a un ceto mediano che, in quanto tale, mediava, anche linguisticamente, fra i ceti come sua prassi quotidiana e professionale prima ancora che letteraria, allo stesso modo che fa ancor oggi un certo ceto professionale, almeno in determinati contesti sociali e sociolinguistici. Così la lingua, e soprattutto il suo lessico, crea la situazione medesima e ad essa aggancia, tramite tale opera di mediazione, il pubblico cui il testo e la perorazione viene rivolta.
O si veda ancor di più la strofa 10 dove tanto il tenore del dettato quanto il lessico sono massimamente giuridici:
10. No est cosa presumibile/ Chi voluntariamente/ Appat sa povera zente/ Cedidu a tale derettu;/ Su titulu ergo est infettu/ De s’infeudassione,/ Ei sas Biddas rexone/ Tenene de l’impugnare.
presumibile, voluntariamente, cedidu, infettu, impugnare: tutti termini tratti dal linguaggio forense e comunque argomentativo, voci d’imprestito e non certo tradizionali, con quell’ergo che stigmatizza il ragionamento sillogistico, e tutto ciò anche a voler prescindere da termini quali derettu e infeudassione che sono termini tecnici difficilmente trasponibili e quindi inevitabili, e che dunque possono e debbono entrare nel lessico di una lingua che cerca se stessa. Tanto più che questa strofa, la 10, segue immediatamente la 9 anch’essa improntata allo stesso tono giuridico:
9. Meda innantis de sos feudos/ Existiana sas Biddas,/ E issas fini pobiddas/ De saltos e bidatones/ Comente a bois Barones/ Sa cosa anzena passàda?/ Cuddu chi bos l’hat donada/ No bos la podiat dare.
In questa tuttavia, il lessico si radica maggiormente nella tradizione sarda, anche perché si parla dell’antichità isolana, di un tempo precedente e in qualche misura mitizzato. Luciano Carta rileva giustamente che i fatti, così come esposti dal Mannu, sono antistorici e legati alla propaganda e al convincimento: infatti, nel contratto feudale di infeudazione, le ville e i vassalli sono oggetto e non soggetto del contratto; si potrebbe forse ipotizzare che la condizione giuridica del feudalesimo sardo, così come viene presentata dall’autore dell’Inno, era legata a una concezione contrattualistica tutta settecentesca della società, e che da tale concezione e con tale ideologia si guardava retrospettivamente verso il passato, forse interpretando come principio e fondamento giuridico generale e ideale, una certa prassi corrente della vita feudale del sec. XVII; né, azzarderei, si sfugge all’idea che il Mannu e la giurisprudenza sarda potessero avere un ricordo, magari ravvivato dagli studi recenti e poi mitizzato, della condizione della Sardegna giudicale: altrimenti chi è Cuddu chi bos l’hat donada…, sa cosa anzena? Ora in questa rappresentazione testuale del passato, agiscono voci e termini al passato stesso legate, ma vive ancora nell’attualità del sec. XVIII in tutti gli strati sociali, e in certa misura e in determinati contesti vivono ancor oggi: termini quali Biddas, saltos, bidatones, pobiddas. Così il giuridicismo linguistico antico trapassa, quasi in una continuità impercettibile, nel giuridicismo moderno, innestando la novità e l’attualità linguistica sul tronco della tradizione, a quest’ultima omogeneizzandola.
Il registro più propriamente e tradizionalmente sardo gioca quando si passa alla descrizione delle condizioni e più in generale del mondo sardo, del suo popolo e della sua gente, ossia quando il discorso si concretizza nei particolari della vita quotidiana o quando il tono si fa ironico e addirittura sarcastico nella critica sociale e morale volta contro l’aristocrazia. Sarebbero molte le strofe o i passi che si potrebbero citare al proposito: mi limiterò a citarne soltanto qualcuna:
21. Pro poder tenner piatos/ Bindighi e vinti in sa mesa/ Pro chi pota sa
Marchesa/ Sempre andare in portantina/ S’iscarpa istrinta mischina,/ la faghet andare a topu/ Sas pedras punghene tropu,/ E no podet caminare.
25. Su Segnor Feudatariu/ A sas undighi si pesa/ Dae su lettu a sa mesa,/ Dae
Sa mesa a su giogu,/ E pusti pro desaogu/ Andat a cicisbeare,/ Crompende
a iscurigare/ Teatru, ballu, allegria.
26. Cantu differentemente/ Su vassallu passat s’ora!/ Innanti de s’aurora/ Già
est bessidu in campagna,/ Bentu, e nie in sa muntagna/ In su paris sole ardente;/ O poveritu comente/ Lu podet agguantare?
L’ironia contro la nobiltà non può certo dirsi sottile, l’antifrasi su cui il registro ironico si basa non ha alcuna mediazione, né deve aspettare lungo giro discorsivo perché esso si scopra, il tono può dirsi addirittura sarcastico se non sardamente canzonatorio e sardonico. Si noteranno le espressioni quali mischina nel senso di ‘poverina’ la faghet andare a topu, crompende a iscurigare, bessire in sa campagna, o anche in su paris (dove paris è usato per pianura, dove pure l’italianismo sarebbe stato facile), oppure ancora agguantare (dove si sarebbe anche potuto usare suffrire o supportare); certo anche in queste strofe l’italianismo retorico non manca, essendo appunto quasi costitutivo e consustanziale al registro letterario dell’epoca, come più volte ormai detto, si veda l’avverbio differentemente o l’aggettivo ardente, che così paiono omologarsi al contesto. E così pure danno il senso dell’attualità parole come quelle della strofe 20:
20. Sas rentas servini solu/ Pro mantenner cicisbeas, / Pro carrozzas e livreas/ Pro inutiles servicios,/ Pro alimentare vicios,/ Pro giogare a sa bassetta,/ E pro poder sa braghetta/ Fora de domo isfogare.
I termini cicisbeas (già usato altrove nella forma verbale cicisbeare), carrozzas, livreas, servicios, bassetta sono al servizio della descrizione del costume contemporaneo che difficilmente poteva rendersi altrimenti in una strofa che vede il termine ormai tradizionale rentas, accanto a un sintagma tanto culto quanto oratoriamente stereotipo quale è alimentare vicios; mentre i due versi finali inclinano il discorso morale, che fustiga i costumi correnti, verso un’ironia cruda che con icastica metonimia (composta di un termine ormai sardo e di uno italianizzante), rivela l’altro coté della pratica del cicisbeo quale sostanziale immoralità viziosa e volgare.
Un’altra movenza stilistica mi pare vada osservata: talvolta l’espressione più marcatamente e tradizionalmente sarda chiude una strofa o ne costituisce la seconda parte che esemplifica concretamente quanto esposto più in generale nella prima parte; si veda la già citata strofa 8:
8. Nasquet su sardu suggettu/ a milli cumandamentos,/ tributos, e pagamentos/ Chi faghet a su Segnore/ In bestiamen e laore,/ in dinari e in natura,/ E pagat pro sa pastura,/ E pagat pro laorare.
Gli oneri che il vassallo deve pagare al signore, dapprima espressi in termini astratti e con lessico straniero e d’imprestito, cumandamentos, tributos e pagamentos, vengono poi specificati in concreto con lessico più attinente alla realtà effettiva: si tratta di tributi versati in bestiamen, in laore, in natura, in dinari, al fine di poter condurre la propria pastura, al fine di poter laorare. Questa contrapposizione fra l’impiego di un lessico d’imprestito e di registro alto retorico e l’impiego di un lessico più radicatamente sardo, contrapposizione con finalità che, più che ironica, direi sferzante, la si può ritrovare alla strofe 34, dove i governanti stranieri contraggono vantaggiosos hymeneos e acquistano gli impleos, gli honores e le dignidades mazores mentre ai sardi non restava che una fune a s’impicare, espressione del linguaggio comune che indica con la forza dell’iperbole e un’efficacia locutiva tutta popolare, la condizione morale e civile dei sardi sempre subalterni. La stessa contrapposizione registrale la possiamo trovare alla strofe 36, dove è detto che la numerosa Gioventude de talentu, e de virtude oziosa la lassàna: termini, anche qui, tutti di registro letterario retorico, ma se pure qualcuno viene impiegato nell’Isola i governanti stranieri chircàna su pïus tontu,/ Proghi li torràda a contu/Cun Zente zega tratare: la locuzione torna al parlato più pragmatico e usuale con forte funzione d’espressività, rimarcata com’è dalla rima che vede il tontu …torrare a contu, nonostante la discrasia sintattica che iatizza il ritorno rimico. E impieghi linguistici di forte espressività sono disseminati in tutto il testo: basare su pe’, traseri, basseri, o l’espressione sia murru o sia baju (nel senso di ‘biondo o bruno che sia’); e così pure su mesu de su salariu, ‘la metà del salario’ che l’impiegato subalternu, il quale ha avuto la fortuna di trovare un pur secondario impiego, deve spendere in regali da inviare a Torino, si concretizza in caddos de casta, cascias de binu, cannonau e malvasia.
Insomma per concludere sulla scelta linguistica e stilistica della scrittura di Francesco Ignazio Mannu bisogna tener conto di alcuni fattori. Innanzitutto l’autore, nonostante sia un intellettuale che ha studiato nelle Università isolane, non è primariamente un letterato o un poeta, ma un giurista e un avvocato: il che, di per se stesso, potrebbe anche voler dir poco, ma il fatto sta che egli usa la scrittura con fini primariamente attinenti alla sua professione: l’Inno è infatti soprattutto una perorazione della causa in cui egli crede e della quale vuol convincere, è una difesa degli oppressi, una squilla che chiama se non alla rivolta, quanto meno alla presa di coscienza e al riscatto civile e morale. Per lui la lingua non è un ambito di ricerca in se stessa, ma uno strumento appunto pragmatico e concreto. La scelta della lingua sarda è dunque funzionale a quest’impegno civile, al fine di una più larga possibile circolazione che uscisse dall’ambito più circoscritto dei circoli politici borghesi e intellettuali. Tuttavia non bisogna dimenticare che, all’epoca, il sardo era impiegato anche in registri meno colloquiali e quotidiani, quale lingua della predicazione, della preghiera, dell’edificazione religiosa, e che da questi ambiti si trasponeva, o poteva trasporsi anche nell’ambito forense e giuridico con funzione emotiva, perorativa, esortativa, oltre che argomentativa; inoltre, per quanto ristretta potesse essere (ma forse più ampia di quanto oggi ci sia dato sapere), era esistita in passato e continuava ad esistere una tradizione letteraria sarda e in lingua sarda, che nella scrittura poetica forniva prove o almeno esperimento di sé.
L’opposizione di registri e di scelte lessicali diverse, considerato soprattutto il fatto che il Mannu non era un letterato, ribadisce ancora una volta la sostanziale condizione di diglossia in cui viveva la Sardegna e il suo parlare, esplicantesi in un perenne bi- o plurilinguismo. Tale diglossia che, nel polo alto, si sostanziava sia di registri aulici tradizionali, sia di forestierismi assunti all’uopo e alle necessità di volta in volta presenti, nel polo basso usava invece il sardo più radicato, tradizionale e quotidiano per la descrizione appunto della concretezza e del lato pratico dell’esistenza, per l’espressività emotiva, ironica, pungente; di modo che questa contrapposizione serviva a, per così dire, sardizzare o comunque rendere operanti i concetti più astratti. La riproduzione, nel nostro testo, di una tale diglossia fattuale tuttavia non veniva impiegata dal Mannu per il fatto che un pubblico sardo, anche socialmente composito, non comprendesse un registro alto e aulico, ormai reso tradizionale soprattutto dalla Chiesa e dalla sua azione pastorale, ma proprio a causa della finalità intrinseca dell’Inno stesso, il quale doveva muovere gli animi all’azione e doveva radicarla nell’emotività più affiorante e immediata.
La trasposizione in sardo del discorso giuridico, morale e civile, nei passaggi più direttamente e solidamente argomentativi, è in ogni modo il segno di una almeno generale coscienza di come fosse necessario impiegare il sardo stesso quale lingua, tra virgolette ma neppure poi tanto, nazionale (anche se nazionale non ha certo ancora quel senso che, in ambito italiano ed europeo, gli attribuirà l’Ottocento: quando peraltro, in Sardegna, la perfetta fusione appannerà le istanze e le valenze nazionali della lingua sarda; lo Spano, andrà ricordato, scrive prima o a cavallo di questa data, dopo la quale il sardo assumerà sempre più una valenza e un interesse regionalistico e folclorico, man mano che il processo dell’unificazione italiana prenderà corpo e attualità). E questo impegno linguistico in senso nazionale sardo era già preparato, nel tardo Settecento, dalla riflessione sulla lingua, che si andava effettuando nell’opera del Madao, come ricordavo sopra. I risultati pratici dei due intellettuali, il Madao e il Mannu, sono stati necessariamente diversi, perché da presupposti diversi essi partivano: il primo cercava un passato glorioso e nobile della lingua sarda, facendo leva sulla sua erudizione e sulla conoscenza, che, pur portata talvolta a qualche forzatura, era comunque nutrita del meglio della riflessione italiana e di molte buone intuizioni: e su tale gloria passata egli intendeva forgiare una lingua di registro e di valore tali che potessero avere respiro e commercio addirittura europei. Il secondo invece, il nostro Mannu, partiva dalla sua prassi professionale che egli linguisticamente innestava su di uno strumento già costituito e/o costituentesi: strumento che egli però rinnovava, immettendovi l’estro suo personale, insieme con la tonalità di un registro pratico e ironico, tutto sardo nello spirito, certamente circolante nella poesia popolare e orale dell’Isola. Fu proprio il secondo dei due intellettuali, fu Francesco Ignazio Mannu, dico, ad avere forse più fortuna e più futuro di modernità: da lui, o anche da lui, credo si possa far discendere la poesia di Efisio Pintor Sirigu, e un po’ più in là nel tempo quella di Peppino Mereu, e in qualche misura di Montanaru.
Maurizio Virdis