...la mia parola: e sabato, 20 maggio, dopo tre ore di cammino, in un calesse guidato con maestria da un caro amico, mio compagno di viaggio, arrivammo a Ittiri alle ore 4 pomeridiane, per una delle strade più pittoresche che io m’abbia veduto. – Le superbe colline rivestite di un’eterna verzura e coronate da vergini boschetti di elce e di quercia, le amene valli nel cui fondo serpeggiano gorgoglianti ruscelli, i giovani oliveti e le incantevoli praterie che s’incontrano lungo la strada che da Usini conduce a Ittiri sono tale da sedurre l’immaginazione di un poeta e la fida tavolozza di un pittore.
La nostra gita non aveva che un unico scopo – assistere ad una delle feste più popolari di quel paese – la festa di San Pasquale. Arrivati, infatti, dinanzi all’antico convento di San Francesco, dove veniva festeggiato il suddetto santo, noi vedemmo molta gente curiosa attorno agli operai, i quali preparavano per la notte i fuochi di artefizio – divertimento che costituisce la seconda passione dei sardi – dico seconda perché la prima è quella della corsa dei cavalli.
Tutto il paese era in moto. Uomini e donne, vecchi e fanciulli ingombravano il piazzale dell’ex convento dei francescani, ora caserma dei reali carabinieri, Pretura, locale delle scuole elementari, stalloni, ecc., ecc. Quella gente faceva ressa attorno alla Ruota della fortuna ed ai banchi dei rivenditori ambulanti di torroni, santi di pasta, chincaglie e mercerie, i quali si servivano dell’innocente giuoco del lotto per attirare gli avventori. Fra quei commercianti nomadi primeggiava l’immancabile Antoine, l’ebreo errante delle nostre feste popolari, il quale col suo linguaggio franco-italo-sassarese apostrofava i compratori seducendoli con un dato che puntava sopra sei carte.
Tutto il paese era in movimento – ma era un movimento automatico… senza riso, senza frastuono, senza allegria. Sul volto abbronzato degli uomini e sulle rosee guancie delle donne era sparso un leggero velo di melanconia che contrastava collo scampanellio assordante e monotono che partiva dalla chiesuola di San Francesco, il qual santo, da buon fratello, aveva in quel giorno dato ospitalità a San Pasquale – e tanto più mi sorprese il freddo contegno di quella popolazione inquantoché il mio compagno di viaggio mi assicurava che gli abitanti d’Ittiri sono per natura allegri, vivaci e molto spiritosi. Chiedemmo ragione di quel malumore, ed una graziosa e snella forosetta del paese, che ci venne incontro appena smontati dal calesse, ci spiegò l’arcano.
Il giorno innanzi (il venerdì!) due giovani pastori, uno di 16 e l’altro di 18 anni, mentre guadavano il vicino fiume, ingrossato delle pioggie, per recarsi alla festa, erano stati travolti nelle onde… e sparirono. Il domani (poche ore prima che noi arrivassimo) si erano rinvenuti i due cadaveri, e furono trasportati nel paese in mezzo alla commozione generale ed al comune cordoglio. – Questo fatto, ed a ragione, turbò la gioia della popolazione, tanto più che la festa di San Pasquale era quella dei pastori, e si faceva diffatti a loro spese!
Fummo ricevuti con molte feste dalla famiglia del signor Antonio Faedda, la cui casa è sempre aperta agli amici ed ai forestieri, con quella cordialità schietta e leale che è il principale distintivo della sarda ospitalità.
Sull’imbrunire, in mezzo ad una folla compatta, assistemmo al gran falò, all’ascesa di un grosso pallone, e finalmente allo spettacolo dei fuochi pirotecnici che durarono più di un’ora e riescirono veramente belli.
Il giorno seguente (nel mattino della domenica) vi fu la predica e la messa solenne, e noi entrammo in chiesa per passare in rassegna tutte le forosette del villaggio, e quelle accorse dai vicini paesi di Uri, Usini e Tissi. I patetici accordi dell’organo risuonarono mestamente per gli archi della piccola chiesa, e fu un momento solenne. I pastori tutti assistevano alla messa. Essi erano taciturni e pensosi, col capo chino, colle braccia incrociate al petto e col berretto frigio fra le mani. A quando a quando giravano gli occhi intorno, e s’interrogavano tacitamente l’un l’altro, mentre una lagrima brillava su quegli occhi fieri ed espressivi. Quello sguardo diceva tutto … Vi erano due posti vuoti nella Chiesa – mancavano due dei loro compagni alla festa! – La voce del curato si fece udire dal pulpito… ma i pastori non si scossero a quella voce… Il loro pensiero era altrove… esso volava alle sponde di un fiume, dove tante e tante volte avevano abbeverata la loro mandria, aspettando con ansia il giorno di San Pasquale! alle sponde di quel perfido fiume che tante volte aveva ascoltato i loro progetti e che li aveva crudelmente traditi alla vigilia della festa!
In quella cerimonia religiosa vi era qualche cosa di triste… era un funerale anziché una festa, e noi ci ritirammo, profondamente impressionati da quell’avvenimento.
Verso le quattro pomeridiane, dopo aver visitato il paese, ci recammo al piazzale della chiesa per vedere la processione e per esaminare la bella tenuta delle ittiresi. – Ho assistito a molte feste dei villaggi, ma confesso che nessuna mi ha fatto la grata impressione d’Ittiri per la ricchezza e l’eleganza del vestiario delle donne. Il concorso era numeroso. Cinquecento e più donne, a frotte, con bell’ordine, chiudevano la processione ed offrivano allo sguardo quanto di più poetico e pittoresco possa immaginarsi. Il vestiario delle donne ittiresi è uno dei migliori della Sardegna – nessun altro può stare al suo confronto, tranne forse quello delle abitanti di Ploaghe, d’Osilo e di Bono.
Le donne d’Ittiri sono belle – hanno la carnagione bianchissima e delicata, la taglia gentile ed elegante, gli occhi tagliati a mandorla e lunghe le ciglia. Quando vi passano dinanzi, esse vi lasciano una rapida occhiata, e contemporaneamente abbassano al suolo gli occhi, mentre sul loro labbro vedete errare un impercettibile sorrisetto che rivela una pudica modestia ed un’innocente furberia. Le belle ittiresi vestono una gonnella di panno scarlatto a pieghe minutissime con due galloni d’oro all’estremità. Il loro corsetto, parimenti di scarlatto, lascia indovinare (e forse troppo!) le bellezze del seno, lasciando passare dai gomiti la candida camicia a sbuffi fra una doppia fila di grossi bottoni d’argento dal gambo lunghissimo. Con una grazia provocante esse adornano la testa di un velo finissimo ricamato in bianco, ed hanno un ampio grembiale a ricchi fiorami, come il velo, che lascia trasparire il color rosso della sottostante gonnella. – Nulla di più ricco e di più ammirabile che vedere una quantità di tali donne vestite allo stesso modo. – È uno spettacolo che vi colpisce e vi richiama alla memoria le poetiche foggie dei costumi greci. Una delle cose poi di un effetto sorprendente e che vi lascia una grata impressione è il tintinnio continuo e sonoro dei 22 bottoni d’argento che adornano le loro maniche, i quali si muovono e si toccano al più leggero movimento della persona.
Soddisfatti pienamente del nostro bel viaggio, tanto io come il mio compagno, giurammo di mai più mancare alla festa di San Pasquale.
Il sole volgeva all’orizzonte, e noi dovevamo fare tre ore di strada; epperò decidemmo di rinunziare alla corsa dei cavalli. – Ci dirigemmo pertanto alla rimessa per far allestire il nostro calesse e attraversammo la folla che si era schierata sullo stradone in attesa dei fantini… Tutti gli occhi erano rivolti ai superbi cavalli corridori, e dalla folla smaniosa e impaziente partiva u mormorio assordante di mille voci confuse – voci di plauso e di gioia… Il buon umore si era finalmente destato allo spettacolo della corsa!
Quando noi, tornando dalla rimessa, passammo dinanzi alla chiesuola del cimitero, a pochi passi dal paese, vedemmo molta gente ferma sulla porta d’ingresso…
Portavamo all’ultima dimora il più giovine dei due pastori. – L’altro era stato seppellito la mattina!
Ittiri, 24 maggio 1876