HOME
 
CHI SIAMO
 
PUBBLICAZIONI
 
AUTORI
 
PERIODICI
 
DIDATTICA
 
LESSICO
 
BIBLIOGRAFIA
 
RECENSIONI
 
EVENTI
 
CREDITS
Vai all'indice di questa sezione

ENRICO COSTA


Dall'album di Actos. Un disinganno. Confessioni d'una sposa
Enrico Costa
...A diciott'anni lascia il Collegio, e rientrai nella casa paterna colla testa piena d'illusioni. I molti romanzi che una mia compagna di ritiro introduceva furtivamente nell'Istituto di educazione, e che io leggeva con avidità, avevano dischiuso nell'anima mia un nuovo orizzonte. Io mi ero fatta dell'uomo un vero ideale - sognavo uno sposo bello come un angelo, con due baffetti alla Romeo, tutto sentimento e poesia. Un giorno che io, in compagnia della mamma, usciva dalla chiesa, trovai l'uomo creato dalla mia fantasia. Era un bel giovine di 26 anni, impiegato all'Intendenza di Finanza. Esso mi fissava sempre con insistenza, con due occhi che ... Dio, che occhi! Me ne innamorai perdutamente. Lo volli mio ad ogni costo ... e lo ebbi. Dopo sette mesi si fecero le nozze. Descrivere la mia felicità non potrei, io vedeva tutto color di rosa. Avrei giurato che il mio sposo era composto della materia di cui son fatte le nuvole; se a tavola non lo avessi veduto mangiare con buonissimo appetito, io era disposta a giurare che egli viveva d'aria e di luce. Come è facile giurare il falso quando si è innamorati!
Era trascorsa una sola settimana dal giorno dei nostri sponsali. Gettando gli occhi sul mio Calendario americano, vidi che questo segnava sempre la data delle mie nozze. Io non aveva più strappato i fogli al Calendario. Quel giorno ne strappai sette alla volta. Lessi l'ultimo: 14 maggio - San Bonifazio - luna piena. Voltai il foglio: fritto di patate, e spinacci al burro. Certe date rimangono impresse nella mente. Il destino aveva per sempre inchiodato al mio cervello quel foglietto americano.
Era una bella notte di primavera. O fosse la cena che io non poteva digerire, o fosse l'insonnia che io soffro qualche volta, il fatto sta che mi era impossibile dormire. Fin da bambina io aveva l'abitudine di dormire col lume acceso, abitudine che io non lasciai neppur maritata. Per consueto la lampada si metteva sul comodino da notte, vicino a mio marito, il mio posto era dalla parte del muro.
Quella notte dunque io mi voltava, ora sul destro, ora sul fianco sinistro ... ma invano. Verso la mezzanotte io sentii come un dolce peso sulle palpebre ... il sonno mi assaliva, ed io opponeva una leggera resistenza. Le mie facoltà mentali poco a poco si annebbiarono, mille immagini vaghe, confuse si affacciavano alla mia mente. Aprivo gli occhi a stento, e le ombre dei mobili riportate sul muro per mezzo della tremula fiamma della lucerna, prendevano mille forme bizzarre. Ora era un Romeo colla piuma al cappello, il quale gettava la sua scala di corda ad un verone chiamando con voce sommessa: Giulietta, Giulietta! - ora era un Werter coi suoi stivaloni, il quale appoggiato al tavolino pensava a Carlotta fissando il grilletto d'una pistola - ora Abelardo che intingeva la penna nel calamaio per scrivere alla sua Eloisa ... E così di seguito.
Finalmente il sonno la vinse ... e sognai.
Mi trovai a Napoli, il come non lo so. Io era in una barchetta, insieme a lui - a mio marito. Il quale vestiva un abito di velluto nero, aveva le maglie color di fuoco e una bianca piuma al cappello, sulla quale batteva un raggio di luna. Il mio sposo mi parlava d'amore, e sotto quel limpido cielo stellato, sopra quell'onda azzurrina, dinanzi a quell'incantevole panorama, io, nel sogno, sognava la felicità.
A un tratto però, il cielo si fè oscuro. Il Vesuvio, in forma di cono, spiccava in tinte brune sul fosco orizzonte; e da quella punta usciva una colonna di denso fumo ... Un sordo rumore, cupo, incessante, faceva tremare la terra e fremere il mare. Non tardai a comprendere ... era il terremoto ... Una colonna di fumo usciva in nere spire dalla vetta del Vesuvio e copriva il cielo. Parevami che, da un momento all'altro, quel cratere dovesse eruttare lave ardenti, e che noi dovessimo perire come gli abitanti di Ercolano e di Pompei. Pensai a Glauco, a Jone, alla sinfonia di Petrella; e fu allora che, rivolta a mio marito, gridai disperata, che prendesse il largo. E mio marito diè di mano ai remi. Il poveretto faceva sovrumani sforzi, ma la barca non si moveva ... e il terremoto rimbombava cupamente. Allora tentai di strappare un remo dalle mani di mio marito, ma il remo si spezzò - volli afferrar l'altro, ma mi scivolò di mano e cadde in mare. Mi colse allora la vertigine - volli gridare ... non lo potei - volli far segno alla spiaggia implorando soccorso ... ma le mie braccia erano come paralizzate. Feci un supremo sforzo e ... mi svegliai.
Il mio seno era ansante - la mia fronte grondava sudore. Senza aprir gli occhi stesi le mani ... toccai le coltri. Le mie facoltà intellettuali ripresero le ordinarie funzioni ... e compresi che io era nel mio letto e che aveva sognato ...
Ma ... oh meraviglia, oh stupore! Il sordo brontolio del terremoto rimbombava sempre nel mio orecchio. Apersi gli occhi ... oh vista, oh terrore! Proprio sul muro, dalla mia parte, vidi ancora il Vesuvio, e sulla vetta di esso quella colonnetta di fumo che mi aveva tanto spaventata nel sogno. Mi posi a sedere sul letto, di soprassalto, e mi volsi a mio marito per implorare aiuto. Orrore!!!
Mio marito dormiva supino, un berretto da notte calato fino alle orecchie, coronava la sua nobile fronte. Il terremoto, che mi aveva tanto atterrita, usciva dalla bocca di mio marito, il qual russava plebeiamente - il Vesuvio, che io vedeva nel muro, non era altro che l'ombra ingrandita di quel berretto - la colonna di fumo era il ricco fiocco di quel cuopri-capo per me tanto fatale.
Mandai dal seno un gemito doloroso. Mio marito si svegliò - sfregò gli occhi con ambo i pugni, e spaventato del mio spavento gridò:
- Elena, Elena! Che ti è accaduto?!
- Nulla, nulla, Armando. Ho avuto un po' di paura ... non posso dormire ... forse la cena ... un'indigestione.
Mio marito, colla compiacenza che tanto lo distingue fra tutti i mariti, balzò da letto, accese una stearica Lanza, e andò egli stesso in cucina.
Io, colle mani, avea fatto velo agli occhi.
Stetti in aspettazione quindici minuti, che mi parvero quindici secoli ... Finalmente lo stropiccio di un piede leggero mi avvisò che Armando ritornava ... Lo guardai di sottecchi ...
Oh Dio! Chi avrebbe mai detto che quella sera il mio ideale doveva cadere dal suo piadestallo color di rosa?
Colle orecchie sepolte dentro un berretto da notte - colle gambe avvolte in un paio di prosaiche mutande - coi piedi chiusi dentro due pantofole - mio marito si fermò sulla soglia della camera, e mi mandò un sorriso affettuoso ... quasi aspettando che io lo ringraziassi della sua attenzione. Egli aveva in una mano la stearica accesa, e nell'altra una scodella di fumante camomilla ...
Quel suo sorriso d'amore mi gelò il sangue ... Non dissi motto, non feci un cenno ... Senza volerlo, comparai quell'uomo con Romeo, con Werter, con Abelardo - e per la prima volta invidiai tanto Giulietta, Eloisa, Carlotta ...
Mio marito si avanzava con precauzione per non spandere il prezioso nettare che dovea darmi la salute ... e sorrideva. Pareva camminasse sopra una nuvola ... le sue pantofole non facevano alcun rumore. Mano mano che quell'uomo si appressava al mio letto, io sentiva cadere dalla mia fronte tutte le illusioni della mia giovinezza ... Cogli occhi fissi negli occhi di lui, pallida, smarrita, ansante, io mi credeva in preda ad un secondo sogno.
Mio marito toccò la sponda del letto.
- Bevi la camomilla, tesoro mio!
Non intesi più nulla ... mandai un grido, e svenni.
Fui seriamente ammalata. Si chiamò il medico; questi non seppe che cosa ordinarmi - incolpò i miei nervi troppo impressionabili ...
Una sera che io mi sentiva più male del solito, mio marito abbracciandomi mi disse:
- Elena, chiedimi qualunque sagrifizio ... voglio farlo per te!
Con fioca voce gli chiesi il sagrifizio del suo berretto.
Armando sorrise ... e gettò il berretto nel camino.
Il domani la febbre mi lasciò - dopo una settimana io mi era ristabilita. Ma invece mio marito cadde ammalato ... Un potentissimo raffreddore me lo inchiodò a letto ... Il poverino starnutava, tossiva ... ed io non ebbi mai la forza di dirgli: Armando, rimetti sul tuo capo il berretto da notte causa di ogni tuo male! ...
Ho sempre fitta in mente la figura grottesca di mio marito in quella notte fatale; né per quanto io faccia posso vincere la mia ripugnanza ... Quel pensiero tenta la mia fedeltà.
Possiamo noi comandare ai nostri sentimenti? Fatalità! - Dice Calcante.
 
Centro di Studi Filologici Sardi - via dei Genovesi, 114 09124 Cagliari - P.IVA 01850960905
credits | Informativa sulla privacy |