I
Inoltrava la notte — su nel cielo,
Come un drappo funereo,
Stendean le nubi un velo:
E un velo ancor, qual funebre lenzuolo,
Disteso avea la neve
Che, lieve lieve,
Cadeva spessa e a larghi fiocchi al suolo.
Era Deserto il loco — e da un superbo
Palagio signoril, che in bruno aspetto
L’ombre sfidava e il ciel, si dipartìa
Un’onda d’armonia
E un murmure incessante
Di confuse favelle. Era un alterno
Succedersi di suoni, e canti, e risa;
Un bisbiglio, un fruscìo,
Come di gente in seno all’esultanza. —
Sotto il patrizio tetto,
Fra i profumi e le musiche,
E i sussulti d’amore,
E le innocenti colpe di desìo,
Nel più vivo tripudio e nella danza
Ratte volavan l’ore.
Tenebre dense intorno — e sol fra l’ombre
Un fil di luce, tremulo,
Alle imposte sfuggìa
Per guizzar sovra il candido
Cristallo della via.
Addossato ad un breve muricciòlo,
Mesto, pensoso e solo,
Stava un fanciul coll’occhio fisso e intento
Su quelle illuminate
Splendide invetrïate.
Laceri i panni e scarsi, e avea il sembiante
Pallido e macilento;
Le piccole sue mani intirizzite
Sul nudo seno ei raccogliea tremante,
Tentando invan coll’alito affannoso
Di riscaldarle – Due furtive stille,
Agghiacciate dal gelo,
Immobili parean sotto le intente
Nerissime pupille
Che a quando a quando si volgeano al cielo.
Fioccava, ognor fioccava – e il poveretto
Dai panni e dalle chiome
Scuotea la neve – pari all’augelletto
Che ansante sbatte l’ale
Allor che il nembo in suo furor lo coglie,
E fra le spesse foglie
Si appiatta invan d’un platano ospitale.
Il tenue raggio che cadea rifratto
Sovra il gelido suolo
Si riflettea sul pallido sembiante
Di quel mesto figliòlo
Esposto al soffio rigido
D’una notte d’inverno.
Era forse uno scherno
Quello sprazzo di luce in quell’istante?
Oppur quel raggio, quasi senso avesse,
Additava al signore
Il figlio della colpa e del dolore?…
Ma la notte inoltrava,
E fioccava… fioccava.
Al suono delle musiche festose
Gemea l’aura commossa,
E fremevano i vetri
Sotto l’assidua, tremebonda scossa.
Pari a taciti spetri,
In voluttuosa danza, ad una ad una
Passavan l’ombre rapide
Traverso gli appannati
Cristalli colorati…
Fioccava… ognor fioccava,
E, tutto solo, nella notte bruna,
Il fanciullo tremava;
E mentre un vento rigido
Il volto a lui pungea,
Egli invidiava un angolo remoto
Nella ricca dimora,
Dove forse a quell’ora
I veltri del signore,
Sdraiati nella cenere, e fumanti,
Russavano al tepore
De’ tizzi crepitanti.
Soffria qul poveretto, eppur del gelo
Ei parea noncurante;
Fisse le sue pupille
Teneva in quel castello, e a mille a mille
Passavano i pensier confusamente
Nella piccola mente;
E, come in sogno, a lui facean ritorno
Le più soavi immagini
De’ suoi giorni infantili;
E una pallida donna egli vedea
Di sembianze gentili
Che vigile si stava al capezzale
Della misera culla.
Al cader d’ogni sera
Quella santa fanciulla
A lui giungea le piccole manine
In atto di preghiera,
E la pace del cor chiedeva al cielo;
Indi, con dolce cura,
Per salvarlo dal gelo,
Di scarsi panni il corpo ne coprìa,
E, con un canto
Rotto dal pianto,
Fra le lagrime e i baci l’addormìa.
In quel tugurio, povera e romita,
Una bella tradita
Celava il suo rossor… Da quelle porte
A cui volgea lo sguardo,
Un dì, torvo e beffardo,
Uscì un infame… e non fe’ più ritorno…
Il plauso a lui – lo scorno
S’ebbe la madre che non fu consorte!
Coll’ali del perdono ha Dio voluto
Cuoprire il primo fallo
D’un angelo caduto;
Ma disse al figlio: “Invan tu chiedi aita!
“Vanne a espiar la colpa
“Dell’infelice che ti die’ la vita!”
Fioccava… ognor fioccava,
E ai sogni lusinghieri
Degli anni suoi primieri
Il figlio della colpa ognor pensava.
Quelle care sembianze, quella culla,
Quel canto di dolore,
Eran tutta la storia
Della sua prima età! – mai altro il core,
Altro mai la memoria
Richiamar non potero dal passato.
Chi gli rapì quell’angelo
In forma di fanciulla?
Qual nome avea fra gli uomini?
Ei non seppe mai nulla;
Ma da quel dì fu sempre sventurato!
Fioccava… ognor fioccava…
E la notte inoltrava
Rigida, fosca, avvolta in bruno velo.
Fra il bianco suolo e il lugubre
Nero manto del cielo,
Come fiammelle intorno ad un avello,
Splendean di luce squallida
Le faci del castello…
Ma la danza fervea, ferveano i suoni;
E mentre una brïaca
Gente nell’orgia consumava l’ore
Sacre al riposo – là, sotto la sferza
Della neve e del vento,
Scioglieva il suo lamento
Il figlio della colpa e dell’amore:
II
Io piango – ma le lagrime
Nessun rasciuga al misero reietto:
Ho fame – ma fra gli uomini
Non trovo chi ristora un poveretto:
Gelo dal freddo – ma il seno materno
Or più non mi ripara dall’inverno…
Che faccio or dunque in questo crudo mondo,
Orfano e vagabondo?…
Siate pietosi – ditelo,
Ditelo a me: - dov’è la madre mia?
Perché mi espose ai triboli,
Povero e solo, in mezzo ad una via?
M’han detto ch’io son figlio dell’amore
E che il babbo fu crudo e senza core;
Ma se per lui così infelice io sono,
È un padre… e lo perdono!
Ma una madre, oh, impossibile,
Abbandonar suo figlio non potea!
Io la ricordo – un angelo
Era la mamma, e bene mi volea…
Se è morta, deh, recatemi da lei,
Chè vo’ narrarle tutti i casi miei…!
Io le dirò, ch’or degli affanni stanco
Dormir le voglio al fianco!
A sette anni folleggiano
Tutti i fanciulli… e questa è la mia etade!
S’io scherzo mi discacciano,
Dicendo che son figlio delle strade.
Li ho chiamati fratelli e m’han deriso,
Perché laceri ho i panni e scarno il viso…
E mi fu detto: - Va! che un trovatello
Non può avere un fratello!
Vedo talvolta un piccolo
Fanciullo passeggiar presso la mamma;
Ha un abitino candido
E una cintura rossa come fiamma.
Io lo seguo con gli occhi, e invidio tanto
Quell’abito e la donna che ha da canto:
Perché madre non ho che belle vesti
Nella festa m’appresti!
Io chiedo a tutti, supplice:
“Datemi un pane! non ho alcuno al mondo!”
E tutti mi rispondono:
“Non accattar! lavora, o vagabondo!”
Lavorare? buon Dio! ma non san loro
Ch’io sono un bimbo e non mi dan lavoro?
Ditemi or dunque, che far deggio mai?
Ho fame… e soffro assai!
Dolci, confetti e ninnoli
Io vedo nelle mani dei fanciulli:
Duolo, sospiri e lagrime
Son tutte le mie gioie e i miei trastulli.
Perché lacero sono, e ognun mi sprezza…
Io non so che sia festa e che sia riso:
Ho mesto il core e il viso!
Quando ogni anno festeggiasi
Il giorno della Pasqua, o del Natale,
Vedo dovunque il giubilo
De’ miei compagni – a me ogni giorno è uguale.
Io non ricevo dalla mamma in dono
L’uovo di Pasqua! – Un orfanello io sono,
E me ne vo soletto ad un altare
A piangere e a pregare.
Nel dì dell’onomastico,
O quando si festeggia il Capo d’anno,
Tutti i fanciulli corrono
Dai genitori… e bei regali essi hanno!
Io, vergognoso e muto, sto in un canto;
Invidio tutti e mi disciolgo in pianto.
Io, che fui condannato a un duol perenne,
Non ho baci, né strenne!
Oh me infelice! – il lastrico
È il mio giaciglio – e quando spunta il giorno
Non mi risveglia il fervido
Bacio materno. Tutto il dì d’attorno
Corro a una gente sorda alla preghiera;
E quando afflitto e stanco io torno a sera
Al mio covo, non veglia al fianco mio
Donna che preghi Iddio!
Sette anni ho appena, e invidia
Porto ai figli de’ ricchi e dei felici:
Nutro rancor per gli uomini
Che con lo sprezzo mi si fan nemici…
Deh, salvatemi voi! – potrei cogli anni
Essere un tristo apportator di danni…
Pietà di me! – togliete un derelitto
Dalla via del delitto!
Stamane ho visto un feretro
Con un serto di fiori e un roseo manto,
E m’hanno detto: – “È un angelo
Che torna dal Cielo!” – Io l’ho invidiato tanto!
E ho fatto una preghiera: o buon Signore,
Toglimi tu dal mondo del dolore:
Quell’angelo che dorme, il cor mel dice,
È di me più felice!
III
Di un incerto chiaror l’alba tingea
Il cielo all’orïente, e lieve lieve
Fitta cadea la neve –
Nei tepidi saloni
Del superbo castello
Le faci impallidivano:
Non più danze, non canti, non più suoni!
Avvolti nel mantello,
Pallidi, stanchi, a passi concitati,
Tornavan gl’invitati
Alle proprie dimore.
Due giovani patrizî, a cui l’ebbrezza
Destava il buon umore,
Si reggean, barcollando, al muricciòlo,
Là dove il trovatello
Chiedea conforto a’ suoi precoci affanni.
Un corpo inerte al suolo
Giacea disteso. Urtò del piede in quello
L’un dei compagni; e l’altro, per trastullo,
Scostando i rozzi panni
Col giunco signoril, scuoprì un fanciullo.
“– Che fai tu qui, monello?
“Freddo è il guancial su cui riposi il capo…
“Sorgi, sordido ghiro,
“O ch’io la neve da’ tuoi panni scuoto!
Gelido, senza moto,
Era quel corpo. Non gli uscì dal labbro
Un lamento… un sospiro.
“– Ma tu lo sgridi a torto!
Disse il compagno – andiamo:
“A casa io fo ritorno.
“Non vedi tu che è morto
“E che più non si desta?
“– Oh sta a veder che ti commuove questa
“Commedia d’ogni giorno!”
Si mossero quei due – Regnava intorno
Il più alto silenzio – sol si udia
Per la deserta via
La monotona pesta
Dei passi in sulla neve, e un cicaleccio
Misto a scrosci di risa in lontananza:
Era la rimembranza
Del passato tripudio e della festa!
E intanto sovra il lastrico
Giaceva il trovatello.
Dagli umani una lagrima
Non ebbe in vita – e or posa senz’avello.
O felici, esultate!
Alla sventura il poveretto crebbe,
Ma un sorriso non ebbe:
Soffrì la fame – e un pane gli negaste:
Il freddo lo gelò – ma non gettaste
Un cencio mai su quelle ignude membra:
Or giace – e niun rimembra
Che un’ora sola abbia vissuto al mondo!
Chi mai dunque si cura
Di un tristo vagabondo?
Vera giustizia è questa!
A lui miseria e lutto…a voi la festa!!
E gli negaste fin la sepoltura!
Ma, di voi meno ingrata,
La provvida natura,
con u manto di neve,
A lui compose un funebre lenzuolo:
E mentre ella vi mostra
Quelle tenere membra irrigidite,
A voi dice sdegnata:
“O felici del mondo, or su! gioite: –
“Ecco l’opera vostra!
Sassari, luglio 1876.